Stefania Giammillaro - « Un po’ per celia un po’ per non morire »: il tempo dell'attesa
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Stefania Giammillaro |
Un
bel dì vedremo
Levarsi un fil di fumo sull'estremo
Confin del mare.
E poi la nave appare.
E poi la nave è bianca.
Entra nel porto, romba il suo saluto.
Vedi? È venuto!
Io non gli scendo incontro.
Io no. Mi metto
Là sul ciglio del colle e aspetto, aspetto
Gran tempo e non mi pesa
La lunga attesa.
E... uscito dalla folla cittadina
Un uomo, un piccol punto
S'avvia per la collina.
Chi sarà? Chi sarà?
E come sarà giunto
Che dirà? Che dirà?
Chiamerà Butterfly dalla lontana.
Io senza dar risposta
Me ne starò nascosta un po' per celia
Un po' per non morire
Al primo incontro, ed egli
Alquanto in pena
Chiamerà, chiamerà:
"Piccina-mogliettina
Olezzo di verbena"
I nomi che mi dava al suo venire.
Tutto questo avverrà, te lo prometto.
Tieni la tua paura, io con sicura
Fede lo aspetto.
Un bel dì vedremo - interpretazione di Renata Tebaldi
Puccini
scelse il soggetto della sua sesta opera “Madame Butterfly”,
originariamente in due atti divenuti poi tre,
dopo aver assistito, nel giugno del 1900, alla tragedia in un atto Madame
Butterfly di David Belasco, a
sua volta tratta da un racconto dell'americano John Luther Long dal titolo Madame Butterfly, apparso
nel 1898.
Costituisce la
rappresentazione in lirica della contrapposizione tra i due mondi, l’Occidente
e l’Oriente, e l’aria quivi riportata, “Un bel dì vedremo”, non a
caso segue un andamento musicale lento, oserei dire dilatato, che riesce a
riprodurre efficacemente in chi ascolta la sensazione dell’attesa, aderente ai
“tempi lenti” degli usi orientali, estremizzandosi in logorio quasi estenuante
dell’attesa medesima.
D’altronde lo stesso Sant’Agostino, cui si deve la
teorizzazione lineare del tempo, nelle sue Confessioni
(Cap. XI, 16, 21) parla della dimensione soggettiva del tempo «noi percepiamo gli intervalli del tempo, li
confrontiamo tra loro, definiamo questi più lunghi, quelli più brevi, misuriamo
addirittura quanto l'uno è più lungo o più breve di un altro». E, al
riguardo, egli precisa che si fa tale misurazione durante il passaggio del
tempo in quanto legata, appunto, ad una nostra personale percezione: «I tempi passati invece, ormai inesistenti, o
i futuri, non ancora esistenti, chi può misurarli? Forse chi osasse dire di
poter misurare l'inesistente. Insomma, il tempo può essere percepito e misurato
al suo passare; passato, non può, perché non è». ( cfr. Il-Tempo-nelle-Confessioni-di-SAgostino )
La percezione del tempo è,
dunque, direttamente proporzionale e parametrata all’emozione/sensazione
vissuta in quel momento che nel frattempo scorre: se è gioia dura un istante, se
è noia sembra un’eternità.
In Madame Butterfly l’attesa
è permeata da una peculiare quanto (in)sana ed ingenua speranza. La protagonista, Cio Cio-san si illude (e ciò è evidente nell’aria sopra
riportata che evoca quasi ad un’immaginifica allucinazione) e sogna il ritorno
del suo amato, Benjamin Franklin Pinkerton,
giovane ufficiale della marina deli Stati Uniti D’America, che la sposò per mera
avventura consapevole di poter abbandonare il letto coniugale anche dopo un
mese, in ossequio, peraltro, alle usanze locali e dal quale, tuttavia, avrà un
figlio.
Nonostante
il trivellarsi latente come goccia che scava la roccia - che nello spettatore
spesso si traduce in angosciosa ricerca di una conclusione dell’aria in esame,
in una non sopportazione per l’eccessiva ingenuità di Cio Cio-san - lei si rivela, comunque, la più forte, la vincente,
lei attende “Là sul ciglio
del colle” e aspetta, aspetta
“Gran tempo” e non le pesa
perché, fedele al suo amore, è sicura del lieto fine: “Tutto questo avverrà, te lo prometto/Tieni la tua paura, io con
sicura/Fede lo aspetto”.
E
del peso dell’attesa, del dilatarsi delle sue maglie e del dilaniarsi nel suo tempo,
ne ritroviamo palpabile richiamo nella poesia, quasi ad assurgere a vero e
proprio “tema”.
In
Emily Dickinson, ad esempio,
l’attesa è sinonimo di “tortura” legata alla non conoscenza della misura esatta
del tempo della stessa, e la tortura è come “un’ape fantasma” (animale
ricorrente nelle poesie della Dickinson) “che non vuole mostrare il
pungiglione”. Il tempo dell’attesa è una spada che potrebbe essere sguainata in
ogni momento, ma che, al contempo, fugge da ogni controllo, da ogni previsione
e l’unica certezza è quel consumarsi nel mentre, che potrebbe
rivelarsi un sacrificio vano e inutile.
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Emily Dickinson |
Se
tu venissi in autunno
Se
tu venissi in autunno,
Ia scaccerei l'estate,
Un po' con un sorriso ed un po' con dispetto,
Come scaccia una mosca la massaia.
Se fra un anno potessi rivederti,
Farei dei mesi altrettanti gomitoli,
Da riporre in cassetti separati,
Per timore che i numeri si fondano.
Fosse l'attesa soltanto di secoli,
Li conterei sulla mano,
Sottraendo fin quando le dita mi cadessero
Nella Terra di Van Diemen.
Fossi certa che dopo questa vita
La tua e la mia venissero,
Io questa getterei come una buccia
E prenderei l'eternità.
Ora ignoro l'ampiezza
Del tempo che intercorre a separarci,
E mi tortura come un'ape fantasma
Che non vuole mostrare il pungiglione.
(da “Tutte le
poesie”, Rizzoli Libri 2012 Emily Dickinson, trad. Margherita Guidacci)
In Chandra Livia
Candiani, la capacità dell’attesa diventa sfida che sottintende una prova
di forza, o meglio, di resilienza simbolicamente ricondotta all’immagine
dell’albero che piegandosi non si spezza.
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Chandra Livia Candiani |
“Sai aspettare?”
“So bruciare”
“Fino alle braci?”
“Fino alle braci”.
“È perfetto”.
(da "Il silenzio è cosa viva - L'arte della meditazione" Einaudi, 2018, Chandra Livia Candiani)
Se sai “bruciare”, se sai vivere il tormento, puoi attendere, e se è così allora è perfetto, allora vale la pena scommettere su ciò che accade al cuore.
Per
Vincenzo Cardarelli, invece,
l’attesa coincide con l’assenza che sancisce a monte la sconfitta di aver
inutilmente creduto in un amore non corrisposto, sebbene sia tragico viverlo
ancora nella sua contrapposizione tra “fiori ed insulti”.
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Vincenzo Cardarelli |
Oggi che t'aspettavo
non sei venuta.
E la tua assenza so quel che mi dice,
la tua assenza che tumultuava
nel vuoto che hai lasciato,
come una stella.
Dice che non vuoi amarmi.
Quale un estivo temporale
s'annuncia e poi s'allontana,
cosí ti sei negata alla mia sete.
L'amore, sul nascere,
ha di questi improvvisi pentimenti.
Silenziosamente
ci siamo intesi.
Amore, amore, come sempre,
vorrei coprirti di fiori e d'insulti.
(da “Poesie" - Milano, Mondadori, 1948)
Infine,
desidero proporvi una delle mie poesie del cuore di Mario Benedetti, o
meglio, dell’uruguaiano Mario Orlando Hamlet Hardy Brenno Benedetti-Farugia,
dove il tempo è talmente trasfigurato nella sua dimensione soggettiva, che alla
fine l’uomo, da vittima del tempo “eterodeterminato”, diventa colui che ne
detta le norme per la sua regolazione: è l’uomo che stabilisce se “c’è ancora tempo”, se “occorre
darselo”. L’attesa recupera il senso
dell’investimento, dell’opportunità, dell’occasione. L’attesa è maggese che
dalla semina prepara ad un buon raccolto.
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Mario Benedetti |
Come
farti capire...
Come
farti capire che c’è sempre tempo?
Che
uno deve solo cercarlo e darselo,
Che
non è proibito amare,
Che
le ferite si rimarginano,
Che
le porte non devono chiudersi,
Che
la maggiore porta è l’affetto,
Che
gli affetti ci definiscono,
Che
cercare un equilibrio non implica essere tiepido,
Che
trovarsi è molto bello,
Che
non c’è nulla di meglio che ringraziare,
Che
nessuno vuole essere solo,
Che
per non essere solo devi dare,
Che
aiutare è potere incoraggiare ed appoggiare,
Che
adulare non è aiutare,
Che
quando non c’è piacere nelle cose non si sta vivendo,
Che
si sente col corpo e la mente,
Che
si ascolta con le orecchie,
Che
costa essere sensibile e non ferirsi,
Che
ferirsi non è dissanguarsi,
Che
chi semina muri non raccoglie niente,
Che
sarebbe meglio costruire ponti,
Che
su di essi si va all’altro lato e si torna anche,
Che
ritornare non implica retrocedere,
Che
retrocedere può essere anche avanzare,
Come
farti sapere che nessuno stabilisce norme salvo la vita?
Come
farti sapere che c’è sempre tempo?
Insomma, la vita stessa riacquista dignità se ancora può essere ammantata di disillusa speranza. Cio Cio-san, invece, ad un tratto si accorge che l’attesa è tempo vuoto, è, come in Cardarelli, assenza ingenuamente riempita dall’altra percentuale, quella della possibilità di riscatto, dove non è ancora tutto perduto. L’alea è stata giocata per intero e occorre arrendersi all’evidenza delle favole che ci si racconta per non affrontare la disperazione palese agli occhi, ma troppo terribile da riconoscere sin dall’inizio. Perciò “chi non può serbar vita con onore”, “con onor muore” e Cio Cio-san muore suicida, in ossequio a queste parole scritte sulla lama del tantō ereditato dal padre, proprio quando il suo amato torna, riconoscendo troppo tardi gli errori commessi. Muore suicida, ma vincente, perché rispettosa dell’onore racchiuso nella purezza del suo animo.
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