Lina Maria Ugolini - A Bacio di rima "Tappo/Tacco"
Baci di parole e foniche operazioni. Se a Tappo aggiungiamo una consonante, la
rima scocca con Stappo. Se alla
stessa parola ne cambiamo due, si passa a Tacco.
Tappo, stappo e tacco ostentano
tutte un suono, rimandano al sorgere di onomatopee, disegnano immagini ironiche
e festose.
Leggiamo questa poesia di Ernesto Ragazzoni
(1870-1920), poeta inquieto e sagace, uomo di lettere e taverne. Abile a
forgiare, inventare una lingua che balza, risuona, irride e stupisce.
Sorgi, spirito! Prorompi.
Sprizza, rompi
finalmente il tuo letargo,
uno scricchiolio, uno strappo:
scatta il tappo,
largo, largo, largo, largo.
Ben venuto! Quante fole,
quanto sole
pel mio calice ripieno.
Par che dentro vi si svolga
tutto un gaio arcobaleno.
Ben venuto! Che mi rechi
da’ tuoi spechi?
Quanti giorni, quante notti
meditasti le tue ciance
nelle pance
venerande delle botti?
Il calor de le mie vene
ti conviene
più che il gel delle cantine.
Sù! E scatenami nel grembo
tutto un nembo
di canzoni peregrine.
Ci son spiriti sui monti,
nelle fonti,
tra le braci del camino,
sotto i fior; ma niun assorbe
tutto l’orbe
come te, spirto del vino.
O nell’agape tu splenda,
e tu scenda
come un liquido metallo
nel bicchiere, e con un guizzo
metta un pizzo
sovra gli orli del cristallo.
Sempre, ovunque, io mi t’inchino
cittadino
d’ogni tempo e d’ogni clima;
primo ed unico rimedio
d’ogni tedio,
primo soffio d’ogni rima.
Sogni i folli sogni audaci
e fra i baci
s’addormenti il libertino!
A me un calice! Ed il mondo
quanto è tondo,
s’aggomitoli in un tino[1].
Se i versi di Ragazzoni evocano il vino, si
ascolti dalla Cavalleria rusticana di Mascagni (libretto di
Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci tratto dalla novella di Giovanni
Verga), il celebre brindisi: "Viva il vino spumeggiante".
https://www.youtube.com/watch?v=nUuNYOMzyDc
Un tappo tappa, copre un foro. Un tappo si
stappa, una stoffa si strappa. Non resta che mettere una toppa o
nell’incertezza osservare ciò che un foro mostra e circoscrive, svela nel vero
oltre ogni finzione. Di un taglio, di uno squarcio in un cielo di carta scrive Luigi
Pirandello ne Il fu Mattia Pascal.
“La tragedia d’Oreste in un teatrino di
marionette! – venne ad annunziarmi
il signor Anselmo Paleari. – Marionette
automatiche, di nuova invenzione.
Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei
Prefetti, numero cinquantaquattro.
Sarebbe da andarci, signor Meis”.
“La tragedia d’Oreste?”
“Già! D’après Sophocle, dice il manifestino. Ora
senta un po’ che bizzarria
mi viene in mente! Se, nel momento culminante,
proprio quando la
marionetta che rappresenta Oreste è per
vendicare la morte del padre sopra
Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel
cielo di carta del teatrino, che
avverrebbe? Dica lei”.
“Non saprei”, – risposi, stringendomi nelle
spalle.
“Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste
rimarrebbe terribilmente sconcertato
da quel buco nel cielo”.
“E perché?”
“Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora
gl’impulsi della vendetta, vorrebbe
seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi,
sul punto, gli andrebbero lì, a
quello strappo, donde ora ogni sorta di mali
influssi si penetrerebbero nella
scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste,
insomma, diventerebbe
Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la
tragedia antica e moderna
consiste in ciò, creda pure: in un buco nel
cielo di carta”.
Un buco in un cielo di carta e un cielo che sta a guardare, un cielo sempre blu. Canta Toquinho in “Acquarello”:
https://www.youtube.com/watch?v=_ntJJhTha0o
Un tappo tappa una bottiglia, il tacco giova alla scarpa. Condivide con la suola il consumo dato dai troppi passi. Tocca al calzolaio curare le scarpe di un uomo se queste hanno troppo cercato per le strade del mondo un amore impossibile.
Quanti scarpi aju spardatu pì veniri ni tia
pì viririti na tutti i stradi do Munnu
stradi niuri di raggia, scagghiusi di pettri,
friddi di nivi.
Quanti scarpi mi cangiai…
I purtai tutte cu mia attaccate a nu lazzu
pì nun pirdilli, pe’ truvalli sempri:
tuttassemi.
Aju caminato… tuccannu a terra di la vita
sintennu furriari ni li vini lu sangu russu.
Mi misi a curriri co ciatu rossu
purtannuti supra a me peddi
maliusa cumpagna ciatata.
(Quante scarpe ho consumato per venire da
te/per trovarti in tutte le strade/nere d’asfalto, dure di pietre, fredde di
neve. /Quante scarpe ho tolto, cambiato/trascinato attaccate a un laccio/ per
non perderle, per trovarle tutte insieme. / Ho camminato toccando la terra
della vita/sentendo nelle vene il sangue rosso. /Ho affrettato il passo con il
fiato grosso/portandoti sulla pelle/maliosa compagna del mio respiro.)
(Lina Maria Ugolini da Mastru Celè scarparu in Perfetti giorni qualunque, Robin, Roma, 2010)
Drammaturgia:
Le azioni ilari e fabulanti di Antonio Ciocca parrucchiere Mastru Celè scarparo e Don Dietropunto op
Impronte e passi. Camminando, camminando. Dove
si va, si va… Eduardo De Crescenzo
https://www.youtube.com/watch?v=JdnunVFLFDg
Certi baci di rima inducono a giocare più che
mai con le parole. Che suono fa un tacco? Se passeggia taccheggia? Se si stacca
da una scarpa, chi lo attacca?
Leggiamo questa filastrocca in milanese. Prima
in dialetto poi in lingua italiana.
Due suoni, due musiche per un solo tacco:
Lettura in suono
Ti ca ta tàcat i tacch,
tàcum i tacch.
Mi tacàt i tò tacch
a ti ca ta tàcat i tacch?
Tàcatai tì i tò tacch,
ti ca ta tàcat i tacch.
Lettura in senso
Tu che attacchi i tacchi
attaccami i tacchi.
Io attaccare i tuoi tacchi
a te che attacchi i tacchi?
Attaccateli tu i tuoi tacchi
tu che attacchi i tacchi.
A questo punto tale giocare di tacchi e stappi non può che finire ballando sotto la pioggia a tempo di TipTap:
Singin' in the Rain Gene Kelly
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