SOPRASSALTI - Laura Valentina Da Re - Historia Magistra Vitae

 

Laura Valentina Da Re



Magistra vitae? Riflessioni sull’utilità di fare storia


Con gli anni turbolenti che stanno segnando le vite di tutti noi, si è spesso riflettuto su “quanto poco si è imparato dal passato” e sui corsi e ricorsi della storia di crociana memoria; la storia appare al contempo come strumento per giudicare il presente e anche oggetto di giudizio da parte dei contemporanei (si pensi ad esempio alla cancel culture), quello che è innegabile è che si senta il bisogno di storia, di conoscere il proprio passato, tendenza che può essere ricondotta alle tensioni che animavano anche i nostri antenati più lontani i quali alla domanda “da dove veniamo?” rispondevano con spiegazioni mitiche (non vi è al mondo una cultura che non abbia elaborato dei miti di creazione del mondo: dai i greci (“Questo cantatemi, o Muse, che abitate l’Olimpo dal principio e dite chi fu il primo tra loro. In principio fu il ChàosEsiodo, Teogonia - VIII sec. a.C.) ai Maya (“Questa è la radice di una storia antica chiamata “Quiché”. Qui noi dobbiamo scrivere, noi dobbiamo piantare questa antica storia, l'inizio della sua piantagione, la sua radice, è questo, tutto ciò che è fatto nella Cittadella Quiché, la nazione delle persone Quiché” - Incipit del Popol Vuh, un’opera che raccoglie i miti e le leggende di varie società che abitarono la regione Quiche”).

Dato che la conoscenza del passato si presenta come un’esigenza, la riflessione su questo bisogno è sicuramente interessante perché pertinente all’uomo (si potrebbe in questo caso citare TerenzioHomo sum, humani nihil a me alienum puto” - Sono umano, niente di ciò che è umano mi è estraneo”); per questo ho deciso di presentare le trascrizioni di una conversazione in proposito avuta con mio figlio, studente di storia - su sua diretta richiesta tengo a precisare che con questo breve contributo non si ha la pretesa né i mezzi per andare a competere con gli storici e i filosofi della storia, quello che si vuole fare è presentare una serie di spunti che possono essere occasione di riflessione personale, una problematizzazione più che una ricerca di risposte -




La conoscenza del passato è un bisogno dell’essere umano, la storia dunque coincide con la conoscenza del passato?


Diciamo che la risposta a questa domanda è variata, almeno per quanto le mie conoscenze mi consentono di comprendere, nel corso del tempo. Mi spiego meglio: storia deriva dal greco Ιστορία (Istorìa) che al suo interno presenta la radice del verbo οἶδα (òida), perfetto terzo di ὁράω (orào) che di base significa “vedere” ma che nella forma perfetta rievocata ha significato “io so” (perché ho visto). La Ιστορία è dunque il racconto di fatti che si conoscono perché li si è visti o vissuti o perché sono stati raccontati da un testimone. Il padre della storia è indicato come Erodoto di Alicarnasso (V sec. a.C.) che scrisse delle “Ιστορίαι” (Istorìai) un’opera vastissima nella quale, oltre alla narrazione delle vicende delle Guerre Persiane, si ha anche un’ampia sezione etnografica e geografica frutto di lunghi viaggi compiuti dall’autore nel corso della sua vita e di varie notizie che gli sono state riportate nelle terre visitate. Si può già notare un elemento caratteristico del lavoro dello storico, il rapporto con la fonte che va analizzata e criticata (lo stesso Erodoto esprime il suo giudizio su certe testimonianze)

Dal punto di vista dell’approccio metodologico della Storia estremamente significativa è l’opera di Tucidide di Atene (seconda metà del V sec. a.C.; prima metà del IV sec. a.C.), la “Ιστορία του Πελοποννησιακού Πολέμου” (Istorìa tù Peloponnesiakù Polému - Storia della Guerra del Peloponneso) nella quale l’autore opera una sistematica critica delle fonti e narra avvenimenti da lui vissuti in prima persona (ricorre molto il già citato verbo οἶδα) che vengono vagliati e analizzati al fine di trovare le cause che hanno portato ad un determinato svolgimento dei fatti. Tutto questo viene fatto nell’ottica di una Storia come “κτῆμα ἐς αἰεί” (ktèma ès aièi - possesso per sempre), la conoscenza di ciò che è accaduto prima consente un’interpretazione del presente e delle tendenze future. Il passato può essere oggetto di uno studio scientifico ed è materia immobile legata a leggi causali.

A Roma la storia veniva appunto vista come “magistra vitae” (Cicerone - De oratore), le “res gestae” (imprese) venivano illustrate come esempio per gli uomini politici, la storia era quindi un genere di letteratura praticato con un determinato fine pratico. Anche una visione di questo tipo è stata superata, ad ogni modo permane in alcuni elementi nel senso comune quando si afferma che “non si è imparato nulla dal presente”. Nel corso dell’Ottocento la Storia per la prima volta si emancipa come disciplina, si ritiene tuttavia che il compito dello storico sia quello di analizzare le fonti per riuscire a determinare se esse siano autentiche oppure no e poi in seguito pubblicare ritenendo che “parlino da sé” perché totalmente conformi al vero.

Nel corso del Novecento gli storici della scuola degli Annales (si ricordano i più significativi: Marc Bloch, Lucien Febvre e Fernand Braudel) ha innovato l’approccio e il significato della storia in particolare andando a scardinare una visione evenemenziale della Storia (come era ad esempio “L’Histoire Bataille” che si concentrava sui grandi scontri che hanno insanguinato l’odissea dell’umanità) per inquadrare il fatto storico, che gode ancora di capitale importanza, all’interno di processi di lungo periodo e che ne vanno a sfumare i contorni. Non è più sufficiente riportare il fatto nudo e crudo con le sue cause materiali, ma bisogna inserirlo all’interno di un’interpretazione e di una visione continua e a tutto tondo della storia che non tiene più conto solo dei grandi eventi, ma ora indaga anche dinamiche sociali, economiche e di pensiero; tutti elementi che contribuiscono alla storia. Si può dire dunque che la storia non deve appiattirsi esclusivamente sulla conoscenza del passato come catena di fatti, ciò che le conferisce davvero importanza e la distanzia da una mera erudizione è proprio l’interpretazione cosa che rende un’analisi storica mai asettica e sempre frutto di modifiche e revisioni; la verità è un obiettivo che si cerca di raggiungere, non un presupposto.




La storia dunque non è solo narrazione di fatti, ma in questo senso come si può definire il rapporto dello storico con le fonti? L’interpretazione non rischia di tradire la verità?


Certamente! Come dicevo prima, l’analisi storiografica non è mai neutra, lo storico non si può e non si deve eclissare, questo perché senza di lui la fonte (in senso lato) cade nel vuoto, rimane muta. In questo è fondamentale la lezione di Bloch: lo storico deve approcciarsi alla fonte con delle domande a cui essa fornisce delle risposte, essa è materia che va interrogata; ovviamente non la si deve piegare a ciò che si vuole sentirsi rispondere ma è necessario capire cosa si vuole cercare, in caso contrario si fa antiquaria, non Storia. Lo storico non deve salvare tutto del passato, deve cercare ciò che a lui risulta significativo per lo sviluppo del fluire storico; l'interpretazione non deve essere percepita come qualcosa di assoluto e di immutabile e anzi probabilmente molte delle opere storiche che vengono prodotte ad oggi saranno in futuro considerate superate, tuttavia non si può prescindere da un'interpretazione perché è essa stessa che dà un senso ai fatti.




In una visione di questo tipo ha senso parlare di verità storica?


Dipende cosa si intende come verità storica: si può dare per vero che un determinato fatto sia accaduto tuttavia il fatto non basta, bisogna interpretarlo e l’interpretazione deve presentare degli elementi di scientificità (approccio scientifico alle fonti, loro confronto…) ma non è mai definitiva. Certi eventi, che ad un’analisi di oggi appaiono insignificanti, in futuro potrebbero ricoprire un’importanza capitale per poi ricadere nell’oblio, come anche uno storico è necessariamente influenzato dal proprio presente e quindi in futuro, con dei nuovi “canoni” (termine impreciso) la sua analisi può risultare datata (si pensi ad esempio a come il ruolo delle figure femminili nella storia non sia stato considerato fino alla seconda metà del Novecento) andando a scoprire un settore di ricerca estremamente ricco e significativo per comprendere meglio il passato e le ricadute che esso ha avuto sul presente. Sarebbe opportuno, almeno secondo me, tenere dunque presente come il concetto di verità storica, spesso strumentalizzato, sia estremamente problematico e difficilmente applicabile.




La Storia dunque è dipendente solamente dal presente?


Non bisogna, secondo me, appiattire la Storia sul presentismo: dal presente si traggono alcune delle domande con cui si interroga il passato, dalle risposte a queste domande ne scaturiscono altre in un gioco di scatole cinesi che appare infinito. Il passato non deve essere tuttavia visto solamente con gli occhi del presente, pena il rischio di appiattirne la complessità: lo storico è una figura in bilico tra passato e presente, deve immergersi nel passato per cercare di coglierne gli elementi, arriva quasi ad indossare l’armatura di un cavaliere del XV sec. o la parrucca di un padre fondatore degli Stati Uniti ma è sempre legato al suo presente dal quale non riesce e non si deve mai distaccare del tutto; non è mai totalmente a suo agio né in una né nell’altra dimensione. E’ un equilibrio estremamente complesso e difficile, complesso anche da capire per me in prima persona.

Quello che mi sento di dire è che ciò che spinge come forza primaria lo storico è la sua volontà di comprendere come si è arrivati al presente, successivamente si cerca di andare a gettare luce su tutte quelle zone d’ombra che forse sul presente hanno avuto un’azione indiretta ma che sono significative per un tentativo di comprensione profonda di un’epoca e per soddisfare, almeno in parte, il bisogno di curiosità dell’uomo e anche perché possono fornire nuovi prospettive di ricerca (forse per una spiegazione generale della Storia, manualistica, basta sapere che il 12 ottobre 1492 Colombo arriva ad Hahiti scoprendo l’America, ma la sete di conoscenza spinge a cercare di fare luce attorno: come si è svolto il viaggio? Chi c’era con lui? Che rapporto si è instaurato con i locali? Chi erano i locali? In tutte queste domande si può nascondere una risposta che permette anche una lettura nuova del presente, in questo caso ad esempio della tormentata storia dell’Isola di Tahiti. E’ pur anche vero che la risposta può dimostrarsi essere qualcosa che, agli occhi dello storico, non risulti importante ma essa può risultare significativa in seguito e non si ha modo di comprendere prima se una risposta sarà significativa o meno; quello che si può fare è continuare a ricercare. In questo senso il passato non deve essere visto come una materia statica).



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