Laura Serluca – Lucia Joyce: in nome del padre
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Laura Serluca |
Gli scatti della fotografa Berenice Abbott, assistente di Man Ray, raccontano di Lucia Joyce e della sua predisposizione all’arte attraverso la danza. Il costume - ideato e confezionato dalla stessa Lucia- è tutto ornato da “squame” moiré d’argento, con una calotta aderente in testa, anch’essa intessuta di scaglie.
La cosa straordinaria di questa immagine è che sembra impossibile che sia stata scattata nel 1928, cioè quasi un secolo fa, perché tutto, dal costume aperto sulle cosce, alla postura della danzatrice e a lei stessa, pare appartenere già alla nostra modernità.
Lucia Joyce è fasciata dalle vesti decorate di una sirena, il suo volto teso è sbilanciato verso l’oblio, il suo corpo ha una postura flessuosa e irregolare ed è trascinato da sonorità e ritmi che le concedono il lusso di essere davvero libera.
La danza moderna le permetteva infatti di sperimentare con il corpo una moltitudine di dimensioni e conquistarsi la sua libertà - i dettagli e le sfumature - che molti spettatori giudicavano bizzarri e rivoluzionari.
Nel muoversi a tempo di musica, Lucia Joyce scopre la sua espressività che è incisiva, audace, quasi barbarica. Selvaggia e leggiadra.
Lucia, appassionata di danza fin da bambina, aveva sempre preso lezioni studiando con coreografi anche del calibro di Raymond Duncan, genio stravagante e dalle idee molto moderne.
Tutti i suoi insegnanti concordano che la ragazza è destinata a un grande futuro sul palcoscenico.
Questa foto così rara è stata scattata in occasione di un festival internazionale di danza che si svolgeva nell’immensa sala del Bal Bullier, nel quartiere Latino a Parigi.
Siamo negli anni Venti, les années folles, nella città in cui l’arte si esprime in tutte le possibili forme.
Il desiderio di libertà che segue il primo dopoguerra si riflette anche attraverso un nuovo stile di danza, esplicitamente contrapposto al balletto classico: il primo segnale del cambiamento furono i piedi scalzi di Isadora Duncan.
La competizione al Bal Bullier riuniva dunque i ballerini di danza libera, oggi conosciuta come danza moderna.
Ai concorrenti era stato richiesto un numero creato appositamente da un coreografo seguito da una improvvisazione a sorpresa.
Lucia ideò il ballo della Sirena, scelse il brano musicale di accompagnamento e realizzò quel fenomenale costume con le sue mani.
Il pubblico ne rimase incantato, tanto che quando fu proclamata vincitrice una ballerina francese, la sala reagì con fischi e proteste. Fra gli spettatori c’erano due persone, il cui giudizio era per Lucia molto più importante di quello espresso dai membri della giuria: suo padre James e l’uomo del quale era innamorata, Samuel Beckett.
Lucia Joyce (26 Luglio 1907) è la secondogenita di James Joyce, il geniale vate del flusso di coscienza, che forse più di chiunque altro, nella Letteratura del secolo scorso, diede una svolta musicale, perfino fisica e carnale alla scrittura: basti pensare allo straordinario monologo di Molly Bloom che conclude Ulysses.
La sua infanzia è spaventosa dal punto di vista emotivo. Mi ha impressionato come sua madre Nora fosse anaffettiva nei confronti di sua figlia, una donna indifferente e distaccata che inevitabilmente, originò in lei una gran fatica nel sentirsi una bambina desiderata e amata dalla sua famiglia.
I primi dieci anni di Lucia Joyce furono segnati dalla povertà, dall’assenza di cibo, da un totale disordine famigliare, da un continuo spostamento in squallidi hotel e appartamenti di fortuna, dalla stretta intimità da parte dei suoi genitori con Giorgio, il fratello nato due anni prima di lei e dai rifiuti affettivi della madre.
La vita di coppia di James e Nora era instabile e caratterizzata da tradimenti (reciproci), da gelosia (reciproca), da esaurimenti nervosi e dall’alcolismo di lui.
C’è un solo momento, tra un’infanzia randagia e oscura e una maturità da fantasma, in cui Lucia Joyce non è più assediata dall’imponente figura del padre- artista: sono gli anni della breve fioritura della sua vocazione giovanile, tra l’inizio e la fine degli anni venti, quando Parigi diventa anche per lei una festa mobile facendole scoprire che la sua strada è la danza. L’alfabeto dell’inesprimibile, il geroglifico di una scrittura misteriosa. Un metodo per raggiungere la magnificenza, per recuperare la verità dell’essere. L’espressione più gioiosa e potente dell’entusiasmo per la vita.
Suo padre James Joyce – esponente del Modernismo – aveva sempre messo in risalto le qualità geniali di Lucia nella danza, a differenza di sua madre che era rabbiosa per il rapporto intenso e complice tra i due oltre ad essere gelosa del corpo giovane di sua figlia che considera una vera e propria rivale.
Ho provato sconcerto pensando allo smarrimento psico-emotivo che ha addolorato Lucia Joyce. Non è stata protetta com’è giusto che vengano protetti i bambini. Non è riuscita a diventare “un individuo completo" e ha fatto i conti con un’identità improvvisata, incompiuta, vulnerabile che, dopo anni, in frammenti, l’ha abbandonata.
Da un lato, una madre-strega, una criminale in grado di spaventare e turbare sua figlia che avrà più volte avuto il senso di colpa per esser venuta al mondo e la sensazione di sentirsi invisibile o inadeguata e dall’altro, l’assedio del padre- artista che pensava ad una figlia immaginaria, ad un’invenzione, ad un’idea.
La cugina di Lucia ricorda di avere visto la ragazza e James insieme, in una vera e propria sessione creativa nella quale lei danza e lui scrive, e la leggerezza del corpo dell'una fa eco e risonanza allo sciogliersi della penna sul foglio dell'altro, come se fosse una danza in comune, un sollecitarsi a vicenda e quel comunicare estraneo agli altri.
Una certezza che abbiamo, testimoniata da molti, è la sofferenza crescente di Lucia e Giorgio nell'essere oscurati dall'aurea paterna: oltre all'indubbio orgoglio c'è la consapevolezza di essere solo un'appendice di James Joyce, il che annulla il loro diritto di separarsi e identificarsi e affermarsi.
Lo stesso Joyce ammetterà: «Qualunque scintilla o dono io possieda è stato trasmesso a Lucia, e ha fatto divampare un incendio nel suo cervello padre; e non è l'unico ad aver colto questa sfumatura: è una replica bloccata e torturata del genio», «un'ombra della mente di suo padre» quindi una sua estensione, che non riesce ad emanciparsi.
(C.L. Shloss, "Lucia Joyce. To Dance in the Wake", pagg. 7, 4).
Lucia era innamorata di Samuel Beckett. Dapprima fu ricambiata dal giovane, ma poi l’umore instabile della ragazza spaventò il futuro drammaturgo, che decise di rompere il fidanzamento.
Nello stesso periodo, James cominciò ad avere dei dubbi sul talento della figlia, probabilmente perché si era convinto che il durissimo allenamento che richiedeva il ballo causasse in lei uno stress eccessivo e che questo fosse all’origine dei rapporti conflittuali che aveva con la madre Nora. Perciò le sconsigliò di continuare a danzare.
Nel 1929 Lucia Joyce decise di lasciare la danza. Diceva di non sentirsi fisicamente abbastanza forte per essere una ballerina di qualsiasi tipo.
Rifiutò l’offerta di una importante compagnia e annunciò che avrebbe fatto l’insegnante, come suo padre. James Joyce condizionò sua figlia che decise di negare a stessa l’unico modo che conosceva per esistere nella vita e sfiduciata da chiunque, Lucia inizia a sentirsi sommersa da prigioni.
Alcuni storici fanno coincidere questi due fatti, seppur non collegati, con il suo tracollo emotivo.
Nel 1932 scaraventò una sedia contro la madre, Nora, durante una lite, e fu ricoverata per qualche tempo in una maison de santé (una clinica privata francese specializzata in disturbi psichici).
Una volta dimessa, i genitori cercarono di aiutarla trovandole un nuovo fidanzato, ma anche quest’ultimo ruppe il fidanzamento a causa delle scenate della ragazza, che aveva crisi di nervi sempre più violente e autodistruttive. In quel contesto socio-culturale, la donna non poteva autodeterminarsi ma doveva sentirsi realizzata trovando marito e dedicandosi alla cura della famiglia, non poteva di certo esprimersi attraverso le arti.
Ma James Joyce non la lasciò sola. Aveva conosciuto Carl Gustav Jung a Ginevra e si rivolse proprio a lui, che in quel momento rappresentava il meglio della nascente terapia psicanalitica.
Il trattamento, purtroppo, durò poche sedute, dopodiché Jung lo interruppe, non vedendo alcun segno di miglioramento. In seguito, confidandosi con un amico, ebbe a dire che: James Joyce e la figlia Lucia vivono entrambi in acque tumultuose ma, mentre James ci nuota allegramente, Lucia vi sta affogando.
L’evoluzione delle scienze psicologiche e del ruolo femminile probabilmente l’avrebbero aiutata a superare quei traumi infantili che furono alla base della sua schizofrenia.
Alcuni studi, peraltro, attribuiscono un’enorme importanza all’atteggiamento inquietante verso di lei da parte della madre. Resta il fatto che la figura di Lucia Joyce è rimasta nell’ombra per quasi un secolo, come se i suoi stessi familiari, James escluso, avessero deciso di cancellarne l’identità, forse a causa della sua malattia, che un tempo era fonte di vergogna o imbarazzo.
Dal 1936 venne relegata in un sanatorio vicino Parigi, in cui Joyce andava a visitarla ogni settimana. Con l’inizio della seconda Guerra Mondiale, la famiglia Joyce si trasferì a Zurigo mentre Lucia rimase nel suo istituto nella Francia occupata.
Joyce morì prima di poterle assicurare un sicuro passaggio per la Svizzera e Lucia trascorse l’intera guerra in un sanatorio della Bretagna. Nel 1951, grazie all’interessamento di Harriet Shaw Weaver, venne portata al St. Andrews Hospital, Northampton, in Inghilterra, dove trascorse il resto della sua vita - sola e abbandonata - fino all’anno della sua morte, il 1982.
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