Gabriela Fantato – Ardenza e Lievità-"La poesia di Daria Menicanti e la Milano degli Anni 30"
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Gabriela Fantato |
In giro me ne vado come un cirro
silenzioso color ombra. Mi piace
stare alto sui tetti a galleggiare
guardando. Io mi sento il palloncino
fuggito dal suo grappolo: una cosa
ironica leggera e all’apparenza
felice.
(da Poesie per un passante, Mondadori, 1978)
A fine anni ‘90 avevo scoperto la poetessa Daria Menicanti cercando tra i libri nei mercatini dell’usato e andando in biblioteca, fui colpita dal primo libro pubblicato, Città come (Mondadori, 1964), che valse all’autrice il Premio Carducci e cito i versi di Keats, posti in esergo, utili a mio avviso per cogliere una parte della personalità dell’autrice: «he is nothing and is all/ he is the camaleonte poeta».
Vedremo in seguito in che modo e in che senso Daria si sente un camaleonte. Vediamo anche il testo “Lettera”: «Siedo ed ascolto, tanti e così lievi/ messaggi di cose che mi attorniano/ perpetuamente. E vivo/ se non il mio/ quel loro ritmo d’aria. / Ascolto e vivo tutte queste cose/ in folla/ e di esse ciascuna, / ma sola non ti sono/ propriamente».
Nei vari testi del 1964 viene stilato una sorta di autoritratto in chiave naturalistica, dove emerge come la poetessa si ponesse in una posizione contemplativa di fronte all’accadere del mondo, per cui la scrittura diventa una sorta di apertura al mondo, una specie di “attesa” in cui tende ad annullare l’Io psicologico e personale, per aprirsi, per dilatarsi, per contenere in scrittura elementi del mondo esterno.
Se da un lato Menicanti avvertiva una sorta di comunione con tutte le creature viventi, dall’altro si sentiva estranea al mondo, in esilio e non a proprio agio in una realtà dominata da potenti e arroganti, tuttavia non poteva tacere, proprio come il grillo, creatura a cui spesso lei si assimila.
Leggiamo il testo che chiude la raccolta del 1964: «Ho posato sopra una pietra / il mio corpo geometrico e allegro / di grillo, tra arroganti / granturchi e girasoli / Sono in pace/ con la stagione / e non mi aspetto più nulla.».
La poetessa esprime vicinanza a ogni vivente, soprattutto verso gli animali di cui scrive con familiarità discorsiva e precisione pregnante, afferrandone la semplicità dell’esistere e questo dimostra come attenzione e curiosità per l’immediatezza e l’innocenza della vita fossero una sorta di filo conduttore della sua scrittura, tesa a cogliere una sorta di “epicità minima” inscritta in ogni vita naturale, in quanto, pur sottostando a leggi crudeli, ogni creatura “semplice” vive secondo la sua natura.
Questo sguardo viene sovente espresso in testi connotati da lievità e ironia, un atteggiamento che Menicanti ha anche nei propri confronti, tanto che il taglio autoironico caratterizza le poche poesie in cui parla di sé stessa.
Ironia e lievità ci sono anche quando la poetessa tratta di temi delicati come, per esempio, la follia o la violenza degli umani. Nel testo “Il piacere dei matti” (Poesie per un passante, Mondadori, 1978) si legge:
C’è un piacere sicuro per un matto
che è quello d’esser matto,
ma solo il matto capisce cos’è.
Ogni giullare amoroso di Dio
si sta beato nella sua solare
pazzia
e dicasi lo stesso per ciascuno
che sia innamorato col suo lupo
che gli ulula dal ventre
o per chi dentro ha un buio di sangue
con soave pressione strizza il collo
del suo avversario a lungo e a lungo fino
a che s’affloscia.
Chi era Daria Menicanti?
Nata, nel 1914 a Piacenza, da padre toscano e madre fiumana, si trasferì con la famiglia a Milano, frequentandovi il Liceo classico Berchet, in seguito si iscrisse alla Facoltà di Lettere e Filosofia e si laureò discutendo una tesi dedicata alla poetica e poesia di John Keats. Nello stesso anno conseguì l'abilitazione all'insegnamento e sarà per tutta la vita un insegnante. Si sposò con il filosofo Giulio Preti.
La sua prima raccolta poetica fu Città come (Mondadori, 1964), seguiranno Un nero d'ombra (Mondadori, 1969) e Poesie per un passante (Mondaori,1978).
Successivamente pubblicò Altri amici (Forum- Quinta generazione, 1989) e Ferragosto (Lunarionuovo,1986).
L’ultima opera è stata Ultimo quarto, con nota di Lalla Romano (Scheiwiller, 1990).
Si ricorda Il concerto del grillo. L'opera poetica completa con tutte le poesie inedite, a cura di Brigida Bonghi, Fabio Minazzi e Silvio Raffo, con la Bibliografia Menicantea, Centro Internazionale Insubrico (Mimesis, Milano-Udine, 2013).
Daria ha una particolare visione del mondo che si è costituita negli anni ‘30, in un’Italia piegata sotto il regime fascista, dove però a Milano, proprio in quegli anni, si era costituito un gruppo di giovani uomini e donne, riunito attorno alla figura del professor Antonio Banfi, grande filosofo che insegnava Estetica all’Università degli Studi di Milano, dove nacque quella che fu detta “La scuola di Banfi”, un gruppo di cui facevano parte, tra gli altri, gli allora giovani filosofi Remo Cantoni, Dino Formaggio, Enzo Paci, ma anche poeti Vittorio Sereni, Antonia Pozzi e appunto Daria Menicanti.
Erano quelli anni tragici eppure molto effervescenti, ricchi di ricerca e di stupore, dove si definiva la possibilità di delineare una sensibilità nuova nel campo delle conoscenze, e a Daria interessava soprattutto la nuova estetica banfiana che coniugava gli opposti: la verità del pensiero e l’intensità del sentimento, la forza conoscitiva della ragione e la centralità dell’esperienza umana.
Questi aspetti della biografia mettono in luce le radici teoriche del fare poetico di Menicanti, connotato sempre dall’intreccio tra pensiero e emozione, tra ironia e visione tragica della vita, tra semplicità del dire e rigore formale, come si vede nel testo “Non si sa” del 1978:
Non si sa come fare con i morti:
hanno una sordità una compostezza
così elaborata, un rigore
di conclusione, di assoluti che
insieme con uno di loro
più che escluso ti senti importuno.
Non somiglia alla faccia del tuo morto
a nessuna delle sue facce che
gli conoscevi amavi. Quelle
non te le sai dimenticare mai
anche se questa, l’ultima, è una somma.
Sei il borghese davanti il generale
che quel che dice – se pur dice e all’aria –
cose assurde remote son le cose
che dice
buone per un’altra gente
un diverso pianeta.
La tonalità riflessiva e il suo avvertire l’estraneità al mondo si andranno sempre più acuendo, unitamente però a una sorta di dote naturale: saper attendere, che è quella unione di pazienza e ardore di cui si diceva che è anche capacità di resistenza di fronte agli eventi della vita, dote che fu della donna Daria Menicanti e della sua poesia, un modo di affrontare la vita che ha molto da insegnarci anche oggi.
Morì per tumore alla gola, in una casa di cura di Mozzate, in provincia di Como il 4 gennaio 1995.
Il suo archivio è conservato presso il “Centro per gli studi sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei”, sito presso l’Università di Pavia.
Menicanti ebbe riscontro di pubblico e di critica abbastanza importante, sulla sua poesia scrissero Luigi Baldacci, Silvio Ramat, Enzo Siciliano, Giovanni Raboni e altri, quindi, tra gli anni 60 e gli anni 70, la sua poesia era riconosciuta e “visibile”, anche grazie alla pubblicazione presso grandi editori. Poi il suo nome scomparve, infatti, credo che pochi abbiano letto la sua opera e la conoscano profondamente, come è accaduto d’altra parte per altre voci poetiche, eppure a mio avviso nel suo scrivere c’è un che di importante per la poesia italiana: un tenere insieme rigore formale, musicalità e lievità di sguardo e tono, elementi non facilmente riscontrabili nella poesia italiana.
Oggi che tutti i canoni sono caduti e che il presente è sovraffollato di scritture poetiche, forse è interessante recuperare qualche voce del passato che ci faccia riflettere, ci spinga a interrogarci sulla nostra scrittura e in qualche caso magari ci dia anche indicazioni operativa inedite. Ecco perché rileggere Daria Menicanti è importante.
Aggiungo anche che, da sempre, ipotizzo la necessità di un approccio ai testi che sia lettura amorosa, in cui ci si immerge nelle parole e nelle immagini dei versi, magari per scriverne poi con lucidità critica scaturita, ma prima di tutto è importante aver colto o intuito nell’opera il telos, il mistero sotteso a ogni scrittura, scandagliare le parole, scorgendo tra le pieghe e dentro i silenzi, dove si annidano le paure, le fragilità, i sogni e la memoria di un autore o di un’autrice. L’opera poetica, infatti, è per me vita intensificata, per questo anche l’analisi critica dovrebbe scavare dentro al testo, con tutta l’attenzione e la pazienza che si dedica alla cura di una persona.
In Menicanti, per esempio, l’apparente e scanzonata leggerezza di certi versi racchiude invece un profondo rispetto per la vita e una grande responsabilità della parola poetica che non consente mai il bieco gioco linguistico, né la descrizione mimetica dell’esistenza o dei viventi, esigendo invece una passione per la molteplicità del reale, passione amorosa, direbbe Zambrano, frutto di uno sguardo acuminato che le permette di cogliere anche tra gli animali un lato nascosto, sovente attraverso una scrittura che sta a metà strada tra il realistico e il fiabesco, per cogliere il collegamento tra l’umano e l’animale, tra la realtà e il mito.
Poesia che talvolta si avvicina anche alla fiaba, quindi, e in questo modo Daria attua una sorta di “verismo dell’immaginazione”, come la stessa Marian Moore auspicava nel suo bestiario Unicorni di terra e di mare (Rizzoli,1981).
L’amore di Menicanti per gli animali è una sorta di francescanesimo laico, un ardore però intransigente, infatti, è importante soffermarsi sul termine «ardenza» usato spesso dall’autrice, che è un neologismo, nato dall’unione di ardore e pazienza.
Sono molto grata a Gabriela Fantato per questo suo saggio accurato che mette in luce le molte ragioni per (ri)scoprire Daria Menicanti, la sua figura, la sua scrittura e la poetica, e che non tralascia al contempo di suggerire un approccio critico che condivido pienamente, una visione della poesia come vita aumentata e della cura della parola poetica come pratica paziente e amorosa, di autentico resistente ascolto. In un mondo sempre più sordo, immerso nel rumore dei tanti ego che cozzano come vuote conchiglie, la voce che si leva portatrice dell'ascolto della voce altrui è la benedizione di un nuovo, ancora possibile umanesimo. Grazie.
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