Daniela Stasi - Il Corpo Vivo Dei Monumenti: Il Dòmm De Milan si fa Cibo (Parte Seconda)

Daniela Stasi

Dio ordina di non mangiare frutti dall'albero del bene e del male


Il Signore Iddio aveva piantato l’Albero della Conoscenza del Bene e del Male al centro del giardino di Eden, ordinando ad Adamo ed Eva di non mangiarne i frutti se non volevano morire.

La narrazione biblica del peccato originale e della cacciata da Eden si legano dunque ad un misterioso frutto, non meglio identificato, che Eva raccolse su invito del serpente ed offrì ad Adamo.

Di quale frutto poteva trattarsi?


In una versione latina della Bibbia era scritto che Eva raccolse un pomum, termine che può significare mela, ma che in senso più generale serve ad indicare qualsiasi tipo di frutto. Fu così che per un banale malinteso, nato intorno al doppio senso della parola pomo, si diffuse nell’immaginario comune la credenza che il frutto proibito fosse una mela.

Adamo ed Eva mangiano i frutti proibiti che il serpente attorcigliato sul tronco del fico gli sta offrendo. I due si coprono con foglie strappate allo stesso albero. 

L’albero della conoscenza del bene e del male era dunque un albero carico di fichi, e non di mele, come confermato da molte opere d’arte di età medievale. Nella seconda si vede il medesimo albero sul cui tronco è attorcigliato un serpente, mentre Eva tende il braccio verso quello di Adamo per offrirgli il fico che avrebbe reso entrambi simili a Dio. Fra i molti dettagli della mitica scena del peccato originale vi è anche un curioso particolare: alla base della pianta si nota l’immagine di un ottagono da cui fuoriescono quattro corsi d’acqua: è il simbolo del fiume paradisiaco creato da Dio per irrigare il giardino di Eden, un fiume che, come riferisce il testo biblico, “si divideva per formare quattro corsi” (Genesi 2,10).

Eppure, durante tutto il medioevo si conosceva ancora l’identità del frutto in questione: si trattava di un fico, quel dolce e succoso frutto estivo che fin dall’antichità si legava all’idea di fertilità, abbondanza e sessualità. Lo stesso albero protagonista della storia di fondazione di Roma, lo stesso che ritroviamo sacralizzato nello spazio del foro. Nome scientifico: ficus ruminalis, dalla parola latina ruma, mammella. Se spezzata in una qualsiasi delle sue parti, la pianta produce infatti un liquido bianco dello stesso aspetto del latte, che richiama l’idea di maternità, nutrimento, prosperità…

Nella cultura giudaico cristiana il fico, in qualità di “albero che allatta”, assunse una connotazione simbolica legata al desiderio e alla tentazione, e quindi all’idea di una sessualità colpevole e di un passaggio dallo stato di grazia a quello di colpa. Di tutto ciò l’uomo e la donna medievali erano ancora consapevoli, in seguito però si finì per prestare meno attenzione ai racconti e alle immagini del passato, si cominciarono a trascurare i dettagli e i particolari di quei racconti e di quelle immagini, e fu così che molte storie e molte opere d’arte rimasero prive dei loro significati simbolici e dei loro messaggi allegorici originari. E fu così che la mela finì per prendere il posto del fico. 


Non vi è solo l’iconografia medievale a mostrare la vera identità dell’albero della caduta, ma vi sono anche i testi apocrifi che riguardano la vicenda di Adamo: nella cosiddetta “Apocalisse di Mosè” viene descritto l’incontro tra la prima donna e il serpente: “…

Curvato il ramo fino a terra, presi del frutto e ne mangiai. – È Eva a pronunciare in prima persona queste drammatiche frasi: "E in quello stesso istante mi si aprirono gli occhi e mi accorsi che ero nuda della giustizia di cui (prima) ero rivestita…. (il serpente nel frattempo) era sceso dall’albero e si era dileguato. Quanto a me, cercavo nella mia parte (di paradiso) delle foglie con cui coprirmi la pudenda, ma non ne trovai sugli alberi del paradiso, giacché non appena ne avevo mangiato, tutti gli alberi (che si trovavano) nella mia parte avevano perso le foglie, ad eccezione di uno solo, il fico. Presene delle foglie, me ne feci delle coperture, e si trattava degli stessi alberi dei quali avevo mangiato!"

La raccolta della manna

Un antello raffigura la raccolta della manna, estratta dal frassino come sostanza resinosa dalle molteplici proprietà (nota in Italia quella delle Madonie).

È davvero notevole l’impianto compositivo, realizzato tramite giustapposizione di piani prospettici, che offrono all’osservatore una scena tridimensionale; il paesaggio rappresentato è reso con preziosità anche nella semplicità dei gesti e delle posture delle donne, preposte alla raccolta e al trasporto della manna. I panneggi delle vesti sono esaltati dall’uso dei rossi vibranti e dal giallo d’argento nelle diverse tonalità.

La manna viene citata nella Torah con riferimento al cibo di cui si nutrì il popolo d'Israele durante il cammino dei Quarant’anni nel deserto dopo l'uscita e la liberazione dalla schiavitù in Egitto. La manna iniziò a scendere dal cielo quando il popolo d'Israele stava avvicinandosi al Monte Sinai per ricevere la Torah. Nella Torah è paragonata ad una pietra di cristallo, al coriandolo bianco e ad una frittella cotta nel miele: si racconta che il miele è 1/60 della manna, e per miele si può intendere anche il dattero o la sostanza più dolce che ad esempio si forma nei fichi. La manna compariva come un granello dopo che lo strato di rugiada si scioglieva: si doveva raccoglierla immediatamente per evitare che anch'essa si sciogliesse. Come unico sostentamento alimentare, la manna veniva lavorata in molti modi; con essa venivano fatte anche delle focacce o torte.

Le Carni.

La carne bovina non era diffusa come al giorno d'oggi, perché allevare le mandrie era molto impegnativo, richiedeva abbondanti pascoli e grandi quantità di foraggio e buoi e vacche erano considerati molto più utili come animali da lavoro e come produttrici di latte. I capi che venivano macellati perché vecchi e non più adatti al lavoro non erano particolarmente appetibili e di conseguenza la loro valutazione era piuttosto bassa.

Molto più usata era la carne di maiale, dal momento che si tratta di un animale che richiede meno cure e si nutre di alimenti più economici. I maiali domestici spesso venivano lasciati razzolare liberamente anche nelle città e si nutrivano di ogni tipo di rifiuti organici provenienti dalle cucine, mentre il maialino da latte era considerato una vera leccornia.

Molto diffuse erano anche le carni di montone o di agnello, soprattutto nelle zone in cui era più sviluppata l'industria della lana, così come quelle di vitello. A differenza di quanto oggi accade nella maggior parte del mondo occidentale, tutte le parti dell'animale venivano mangiate, incluse orecchie, muso, coda, lingua e interiora. L'intestino, la vescica e lo stomaco venivano impiegati per rivestire salsicce e salumi oppure venivano utilizzati dai cuochi per dare al cibo forme fantastiche e artificiali come quella di uova giganti. Tra i tipi di carne allora usate ma rare al giorno d'oggi o considerate inadatte all'alimentazione umana c'erano quelle di riccio e di istrice, occasionalmente menzionate in ricettari del tardo Medioevo.


In epoca rinascimentale si mangiava poi un'ampia varietà di volatili, tra cui cigni, pavoni, quaglie, pernici, cicogne, gru, allodole e praticamente qualsiasi uccello che potesse essere cacciato. Cigni e pavoni spesso erano addomesticati, ma venivano consumati solo dalla classe più elevata e in effetti apprezzati più per il loro magnifico aspetto (li si usava per creare piatti molto appariscenti da servire in tavola), che per la bontà delle carni. Come succede anche oggi, oche ed anatre erano animali domestici piuttosto diffusi, ma non raggiungevano la popolarità di cui godeva il pollo, che in pratica era l'equivalente pennuto del maiale.

Curiosamente, si credeva che l'oca facciabianca, una specie nordica e selvatica, non si riproducesse deponendo le uova come gli altri uccelli, ma che nascesse dai cirripedi marini che si trovavano sulle scogliere e di conseguenza era considerata un alimento accettabile per i periodi di penitenza e digiuno.









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