Anna Spissu: La lingua misteriosa della poesia IV

 


Anna Spissu


Ho sempre amato i motti latini. 

Brevi, incisivi, profondi, dotati di quella dose di saggezza radicale che ha fatto sì che abbiano attraversato intatti il tempo. Più o meno consapevolmente molti di loro fanno parte della nostra vita. Nella mia, ce n’è uno in particolare che mi ha aiutato in più d’un’occasione. 


Sarà sicuramente capitato anche a voi di trovarvi in una situazione nella quale avrete avuto proprio voglia di lasciarvi andare e di fare o dire cose che sapevate (sapevamo) benissimo che avrebbero peggiorato una certa situazione già di per sé piuttosto spiacevole. 

A volte lo abbiamo fatto, altre volte, come un grillo parlante, il motto cui prodest, (a chi giova) ci ha sussurrato all’orecchio di ragionare sull’utilità o meno del nostro agire e abbiamo cambiato strada. 


Il motto, apparso per la prima volta in un passo della Medea di Seneca, non era nato con queste intenzioni e riguardava la soluzione di un caso giudiziario, in pratica serviva per individuare il movente. 


A chi giova però, mi pare sia anche tra i fondamenti dell’oratoria, cioè di quella particolare arte che mira a convincere chi ascolta che una certa cosa è giusta, oppure, in mancanza di fatti evidenti, che le cose sono andate in un certo modo piuttosto che in un altro. 

L’oratoria è l’arte di saper persuadere, naturalmente sempre a vantaggio di qualcosa o qualcuno.


Opposto al cui prodest c’è in vino veritas, cioè quel momento in cui la coscienza abbatte i suoi argini e fa sì che emerga nuda e cruda la verità. 


Questi due motti latini sono opposti fra loro come lo sono l’oratoria e la poesia. L’una mirante alla persuasione, l’altra alla verità. 


Louise Gluck, premio Nobel per la Letteratura, ha scritto questa poesia che prendo ad esempio per quanto scrivo:  


    

Primo ricordo     

Louise Gluck

Molto tempo fa sono stata ferita. Sono vissuta
per vendicarmi
contro mio padre, no
per quel che era –
per quel che ero io: fin dai primi tempi,
da bambina, pensavo
che il dolore volesse dire
che non ero amata.
Voleva dire che amavo.

 

Leggendo questi versi, si è colpiti dalla verità. Il giudizio dei rapporti della poetessa col padre è qui totalmente indifferente al lettore: non ha nessuna importanza se sia stato giusto o meno vivere per vendicarsi contro il padre, a nessuno verrebbe in mente di esprimere un giudizio su questo fatto talmente è forte la rivelazione del fatto che il nocciolo del dolore risieda non nell’amore negato ma nell’amore provato da questa bambina.  


Ma ancora, Louise Gluck fa fare alla verità un passo ulteriore. Un passo che annienta l’idea di giusto perché attinge all’immaginato laddove si consideri che non c’è verità più vera di quella cui vogliamo credere.  

Cosa potrebbe provare un defunto il giorno del suo funerale? Quale verità potrebbe svelarci nella sua condizione? 


Lamento


Improvvisamente, dopo che sei morto, quegli amici

che non erano mai d’accordo su niente

concordano sul tuo carattere. 

Sono come una casa piena di cantanti che provano

lo stesso spartito: 

eri giusto, eri gentile, hai avuto una vita fortunata. 

Senza armonia. Senza contrappunto. Solo che 

non recitano; 

versano lacrime. 

Per fortuna sei morto; altrimenti

saresti sopraffatto dal disgusto. 

Ma poi quando è finita, 

quando gli ospiti cominciano a uscire in fila, asciugandosi gli occhi

perché, dopo un giorno come questo, 

tutto all’interno dell’ortodossia, 

il sole è sorprendentemente luminoso,

sebbene sia un tardo pomeriggio di settembre-

quando comincia l’esodo, 

è allora che senti

il morso dell’invidia.

I tuoi amici viventi si abbracciano, 

spettegolando un poco sul marciapiede

mentre il sole tramonta, e la brezza della sera

scompiglia gli scialli delle donne- 

questi, questo, è il significato di 

“una vita fortunata”: 

esistere nel presente. 


Tralasciamo l’evidente constatazione che ai funerali si parla sempre bene del defunto e concentriamoci sui sentimenti immaginati del defunto cui è attribuita una non vita toccata tuttavia dal sentire. Cosa che gli fa provare disgusto verso la falsità di coloro che piangono, per l’evidente motivo che le persone si devono amare da vive. 


Un pensiero che non possiamo non condividere col defunto perché fa parte anche della nostra esperienza reale: tutti abbiamo visto o comunque sentito di persone che lodano chi non c’è più mentre, di costui in vita, ne hanno detto peste e corna. 


Il nostro terreno d’indagine però non è questo. La verità che ci colpisce come un pugno è un’altra: è il morso dell’invidia

Il sole sta tramontando e presumibilmente copre persone e cose di una magnifica luce dorata, la brezza della sera si alza delicata ma potente, i viventi sentono nell’abbraccio il contatto del proprio corpo con quello di un altro, nell’aria si diffonde il chiacchiericcio di parole dette per dire, senza utilità.  Potrebbe essere l’ora della malinconia perché esiste anche una dolcezza struggente nell’andarsene e nel ricordo di chi se n’è andato.

E invece no. Louise Gluck ci propone il sentimento feroce dell’invidia: il tremendo smarrimento di non potere più essere vivi e di aver capito, solo da non viventi, che la fortuna era essere vivi nel presente. Il precipizio di angoscia per non averlo compreso prima, l’invidia irrimediabile e bruciante. 


Non sapremo mai ovviamente se il protagonista di questa poesia abbia veramente provato questi sentimenti ma certamente Louise Gluck ha svelato una verità possibile che non ci lascia indifferenti. La coscienza ha abbattuto gli argini della ragione per trovare la sua veritas nella lingua della poesia.


(Louise Gluck: Le poesie” Primo ricordo” e “Lamento” sono tratte da Ararat, Edizioni Il Saggiatore)


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