Sergio Daniele Donati - Figli Di Ventidue Stelle - "Impressioni Di Fine Inverno" - La Dimensione Nomade in una poesia Di Nathan Zach

 

Sergio Daniele Donati
          

Esiste una poesia di Nathan Zack, famoso poeta israeliano della prima generazione, apparsa in traduzione italiana di Ariel Rathaus nella raccolta Poeti israeliani (Einaudi, 2007), con il cui testo, anche in ebraico, ho sempre “giocato con dolcezza”, perché contiene in sé delle linee uniche nella comprensione della dimensione di quella declinazione del nomadismo che potremmo chiamare “nomadismo involontario”.

Nonostante il titolo, che potrebbe apparire fuorviante, infatti, l’autore trasmette, con brevi concisi versi, l’idea di una netta distinzione tra nomadismo come scelta di vita di alcune popolazioni, i cui usi e costumi su quella scelta si plasmano, e gli effetti di una diaspora non cercata in cui è l’idea – e non necessariamente la realizzazione - di un ritorno è il tamburo battente.

In pochi e brevi versi, dicevo, il Poeta, riesce a condensare alcuni tratti distintivi del pensiero ebraico che, molto ebraicamente, cela dietro ad un ritmo lento e allo stesso tempo incalzante.

Anzitutto il testo. Eccolo per voi.

 

“Manuale del nomade”

Non scordarti di chiudere la finestra prima di uscire
non scordarti di chiudere la porta a chiave
non scordarti di baciare tua moglie sulla bocca e sull’orecchio
non scordarti di dondolare la piccola culla
senza spaventare il bambino.
Non scordarti la torcia elettrica
e portati dietro le batterie.
Tu sai quando parti
ma non quando tornerai.
Forse tornando la finestra sarà chiusa
e la porta di casa chiusa a chiave,
tua moglie non distinguerà i tuoi passi
e tuo figlio non saprà più chi sei.
Attento, o tu che parti per terre lontane,
non metterti in cammino se intendi tornare
.

 

A ben osservare ogni verso, fino al finale, contiene un monito ad un non facere, o meglio, a non scordarsi di fare. E qui Nathan Zach ci parla della natura primaria dell’uomo che è quella di saper dimenticare. La Memoria, che è richiamo etico costante nel pensiero ebraico, appunto necessita di sforzo e di una disciplina molto simile a quella della scrittura.

Naturalmente, e in molti casi fortunatamente, l’uomo dimentica.

Ma ci sono cose che chi decide di abbandonare la propria casa non dovrebbe dimenticare.

In elenco stretto e con nota simbolica:

- lasciare la finestra aperta significa non proteggere la propria dimora e la sicurezza dei propri cari

- la porta da chi parte deve essere serrata perché non vi sia la tentazione di un ritorno precoce, prima che il viaggio abbia svolto i suoi effetti trasformativi su chi lo intraprende

- ogni abbandono della dimora è anche abbandono della più vincolante delle promesse, quella di una unione con la propria compagna, e quindi non va dimenticato da chi parte volontariamente un atto di tenera gratitudine nei confronti di colei che si ama, perché senza il suo assenso la partenza sarebbe non solo impossibile, ma segnata da una linea di male.

- che sia benedetto il sonno e il sogno di un figlio come ultimo gesto di chi parte (alla conoscenza profonda di sé stesso?) è elemento centrale di un pensiero che del rapporto genitore/figlio ha fatto la più minuziosa descrizione, sin dai più antichi testi sacri.

- e poi non bisogna dimenticarsi di portare con sé una luce – e ciò che la alimenta – perché è quella luce (interiore?) e quel nutrimento (le batterie) sono necessarie per i nostri passi nel mondo.

La seconda parte della poesia, poi, descrive in modo inusuale la dinamica del ritorno.

In realtà, sembra ammonirci il Poeta, si torna solo non partendo. Ma, una volta intrapreso un viaggio – specie se alla scoperta di noi stessi - non possiamo sapere se e quando torneremo e, soprattutto, se verremo riconosciuti dai nostri cari, una volta tornati.

Del tutto evidente il richiamo al mito di Odisseo, non riconosciuto se non dal suo cane, una volta riapprodato ad Itaca.

Ma qui il Poeta non si limita a descrivere tale rischio, ma arriva a sovvertire un pensiero che del ritorno traccia solo i tratti romantici e positivi.

Dai romanzi cortesi al Signore degli Anelli, dopo l’avventura gli eroi tornano nelle loro lande dove vengono accolti e vivono il resto dei loro giorni felici e contenti, magari limitandosi a sistemare qualche magagna che la loro assenza aveva causato.

Ma ben raramente, sia in letteratura che in poesia, il viaggio è messo in relazione con il monito contrario, ovvero a NON TORNARE.

Persino Ulisse, benché non riconosciuto, torna ad Itaca come un avente diritto, come colui che può avanzare delle pretese lecite.

Nathan Zach, invece, ci dice una cosa semplice ed amara: chi parte chiude una porta - e una finestra – che non può pretendere di trovare aperta al suo ritorno.

Il ritorno è nel restare, e il viaggio per la propria trasformazione non dovrebbe essere viziato a priori dall’intenzione di tornare.

Allora è bene che quella porta - quella finestra - la chiuda chi parte, perché resti memoria di una scelta e accettazione del rischio profondo che ogni decisione porta con sé.

E, come accennavo sopra, senza dirlo in nessun punto, nei versi del Poeta c’è la più profonda distinzione tra nomadismo – viaggio come scelta – e diaspora, come evento traumatico e di cacciata dalla propria dimora, come vento non scelto, né eletto, in altre parole.

Perché solo chi non ha mai inteso mettersi in cammino ha diritto al ritorno, a ritrovare la finestra e la porta aperta, così come l’ha lasciata; così come non deve lasciarla colui che sceglie di partire.

 

 

 

 

 

 

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