Laura Serluca - Il corpo universale di Marina Abramović
di Laura Serluca |
Le performances artistiche dell’artista serba Marina Abramović sono di fatto eccentriche, a volte inspiegabili per cui, affascinata dal suo modo di concepire l’Arte, mi sono interessata anche alla sua vita leggendo l’autobiografia “Attraversare i muri”. La sua è certamente un’opera dai caratteri anticonformistici, riflessivi, fuori dagli schemi e profondi. Attraverso le sue performance, l’invito è a riflettere su sé stessi, sul ruolo che l’essere umano ha nel mondo e in che modo si relaziona con i suoi simili.
L’artista nasce il 30 novembre a Belgrado, ex Jugoslavia, in una famiglia benestante. I genitori Vojo e Danica, entrambi partigiani durante la Seconda guerra mondiale, fanno parte della dirigenza del Partito comunista del generale Tito. Marina passa i primi anni con la nonna materna, Milica, e viene profondamente influenzata dalla sua fede ortodossa. Marina Abramovic fu cresciuta secondo una ferrea etica del lavoro. La prima cosa che mi ha colpito è il suo rapporto con la madre. Una donna ossessivo-compulsiva. Una donna tormentata dall’ordine.
“L’ossessione di Danica per l’ordine mise radici nel mio inconscio. Avevo un incubo ricorrente sulla simmetria (…) Ero terrorizzata all’idea di rompere la simmetria (…) In quei sogni ero sempre quella che faceva qualcosa per spezzare la simmetria e, non essendo permesso, qualche forza superiore mi avrebbe punito. Pensavo che la mia nascita avesse distrutto la simmetria del matrimonio dei miei genitori (…) Ma assieme alla pulizia e la simmetria, l’altra ossessione di mia madre era l’Arte”.
Marina Abramović era sola, in una famiglia litigiosa, con una madre punitiva, infelice e con la mania del controllo. Era rigida e ostinata per cui sottoponeva sua figlia ad un coprifuoco che la costringeva a rincasare entro le dieci di sera. È proprio l’artista a scrivere: “Ho imparato la mia autodisciplina da lei e ho avuto sempre paura di lei”. Per sua madre però l’Arte era sacra.
Marina Abramović sapeva di voler diventare un’artista già da quando aveva sei - sette anni. Fu proprio sua madre ad incoraggiarla nel suo percorso artistico. Iniziò a confrontarsi con il disegno e la pittura ma più tardi, iniziò a voler coinvolgere lo spettatore nell’esperienza artistica. Tra il 1965 e il 1970 studia all’Accademia di Belle Arti di Belgrado.
Le espressioni figurative diventano sempre più astratte. Perfeziona gli studi all’Accademia di Belle Arti di Zagabria, in Croazia. Comincia a usare il corpo come strumento artistico e a dedicarsi al suono e all’arte performativa. Nel 1971 sposa l’artista concettuale Neša Paripović, ma continua a vivere con la madre.
Nel 1973 incontra Joseph Beuys considerato uno degli artisti più importanti e controversi del XX secolo. Gli happening di Beuys la colpiscono profondamente e collabora con Hermann Nitsch noto per le sue opere viscerali e una pratica artistica legata al rituale del sacrificio. Nello stesso anno Marina Abramović presenta la performance Rhythm 10 al Museo d’Arte Contemporanea di Villa Borghese a Roma.
Nel suo debutto, Marina ha in mano un coltello - una mano aperta su un tavolo, l’altra mano che a ritmo fa passare vari coltelli attraverso le dita, tagliando inevitabilmente la carne ad ogni errore - espediente scelto per sperimentare la gestualità rituale con lo scopo di superare i limiti del corpo e della mente: "Una volta che sei entrato nello stato dell'esecuzione, puoi spingere il tuo corpo a fare cose che non potresti assolutamente mai fare normalmente."
La sua produzione artistica è infatti caratterizzata da una lunghissima serie di performances con lei protagonista che spinge ogni parte del proprio corpo, sia fisica che spirituale, a prove che spesso oltrepassano il limite umano di sopportazione: a volte è lei stessa ad agire in scena, altre volte invece c’è ma rimane inerme, affidando totalmente l’azione al pubblico.
A partire dagli anni ’70, la sua ricerca è caratterizzata da un’espressività più astratta, legata al suono e alla performance. In “Rhythm 0” (1974), presso lo Studio Morra di Napoli, rimane immobile per sei ore in una stanza con 72 oggetti che il pubblico era incoraggiato a usare su o contro di lei; tra questi anche una rosa a una pistola carica.
Lei scrive: "Il pubblico puo' ucciderti. Quello che era successo era semplicemente la performance. E l’essenza della performance è che il pubblico e il performer realizzano l’opera insieme”. Autolesionismo e nudità sono elementi che da allora ricorrono nella pratica di Marina, attirando sull’artista crescente interesse e polemiche. “Quando arrivo al limite della resistenza mi sento incredibilmente viva”: dice in un’intervista.
“Abbiamo tutti paura della sofferenza, della mortalità. Quello che facevo in Rhythm 0 era mettere in scena queste paure per il pubblico: usare la loro energia per spingere il mio corpo il più lontano possibile.”
Un altro elemento interessante è il suo rapporto con gli uomini. Suo padre era andato via di casa e aveva un’altra donna. In tutto il libro, soprattutto dopo la fine della sua ultima storia d’amore, si percepisce la paura dell’abbandono e della solitudine nonostante si tratti di un’artista apparentemente concentrata e imperiosa. Credo che l’Arte fosse anche il modo attraverso il quale “andare oltre” le sue fragilità, oltre la soglia del dolore sia fisico che mentale.
L’incontro con Ulay fu magnetico, lei da subito s’innamorò di lui per il suo essere originale, carismatico e diverso da tutti gli altri e condivise con lui dodici anni della sua vita sentimentale e artistica. Nel 1976 Marina divorzia da Paripović per trasferirsi con Ulay ad Amsterdam. Da allora, la coppia intraprenderà lunghi viaggi in giro per l’Europa a bordo di un vecchio furgone Citroën, in compagnia del cane Alba. Quest’esperienza porterà alla realizzazione della serie “Relation Works” e del manifesto “Art Vital”.
“Non avevamo soldi, ma ci sentivamo ricchi: il piacere di avere del pecorino, qualche pomodoro dell’orto e un litro d’olio d’oliva; di fare l’amore in macchina, con Alba che dormiva tranquillamente nell’angolo, era oltre la ricchezza”.
Altro tema fondamentale per la loro evoluzione personale e artistica è il viaggio. Marina Abramović era stata sempre attratta da nuove avventure, dall’addentrarsi in territori inesplorati. I due si trasferirono in Australia e trascorsero nove mesi nella tribù Pintupi del Gran Deserto Victoria a stretto contatto con la cultura aborigena.
Marina Abramović era affascinata dalla loro cultura basata sulla credenza di un mondo invisibile e su energie che influenzano i nostri corpi. Aveva imparato che il dolore fisico si può controllare, mentre più difficile è tollerare quello emozionale.
Consapevole di tutto questo, il viaggio in India fu importante. Marina e Ulay incontrano il Dalai Lama e il suo mentore, il tulku Kyabje Ling Rinpoche. Si dedicarono alla meditazione e alla concentrazione, attraverso lo studio della tecnica meditativa del vipassana. Elementi fondamentali nella performance “Nightsea Crossing”.
Nel 1980 realizzano “Rest Energy”, performance che nella sua tacita tragicità sa raccontare la loro tormentata storia d’amore: Ulay e Marina sono l’uno di fronte all’altra, in equilibrio precario all’estremità opposte di un arco teso, con una freccia puntata al cuore di lei. Con un solo dito, Ulay avrebbe potuto ucciderla.
Il rapporto tra i due entrò in crisi a causa dei diversi tradimenti di Ulay. Il sodalizio artistico e amoroso tra i due terminò con un altrettanto spettacolare ed emozionante performance (The Lovers) che li vide percorrere la muraglia cinese dai due estremi opposti, fino ad incontrarsi al centro e salutarsi.
Novanta giorni di viaggio, per un totale di 2500 km, per poi incrociarsi e dirsi addio. Da quegli anni in poi Marina Abramović si dedicò ad un’arte autobiografica passando dall’indagine del suo corpo all’epifania di oggetti presi dal naturale e ispirati alla cultura di popoli indigeni che lei definì di “transizione” e di “potere”. È lei stessa la propria opera. La sua essenza di artista eccezionalmente comunicativa è nelle performance in cui si mette in gioco davanti al pubblico. “Nel mio caso, se non c’è pubblico non c’è arte. Il pubblico e l’artista sono elementi complementari e inseparabili” spiega.
Dopo la fine della storia con Paolo Canevari, Marina Abramović cercò di superare il dolore emotivo, il bisogno di essere amata e accudita, mai soddisfatto da sua madre e che si manifestava come una ferita nel rapporto con ogni uomo. Qualcosa che nessuno fu mai in grado di sanare. Ogni dolore emotivo diventa un dolore fisico. L’artista cercò di superare quello che le stava accadendo recandosi in Brasile dagli sciamani Rudà Iandè e Denise Maia. In questo viaggio spirituale, lo sciamano le disse: “Adesso inizia il tuo processo di guarigione. Sei libera dal dolore dei vecchi ricordi ... Ora devi imparare ad amare te stessa. Non posso farlo io al posto tuo. Devi farlo da sola. Devi dare amore a te stessa. La memoria delle tue cellule deve essere riempita d’amore. Non devi far altro.”
“Tutto il mio lavoro in Jugoslavia riguarda molto la ribellione, non solo contro la struttura familiare ma anche contro la struttura sociale e la struttura del sistema artistico. Tutta la mia energia proviene dal tentativo di superare questi tipi di limiti.” Anche la matriarca della performance art viveva però con una ferita che solo l’amore verso se stessa avrebbe potuto sanare. La sua autobiografia termina con una consapevolezza e inizia con questa frase: “è incredibile come la paura venga costruita dentro di te dai tuoi genitori e dagli altri che ti circondano. All’inizio sei innocenza pura, non sai nulla.”
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