Filippo Golia - Recensione su Emanuela Cocco: "Trofeo"

 





Inseguendo una voce


Solo per togliermi una curiosità ho iniziato a leggere Trofeo di Emanuela Cocco, edizioni Zona42, che avevo visto circolare in rete.

Ma sono rimasto intrappolato dalla voce che si snoda nelle prime righe, perché quella voce l’avevo già ascoltata o almeno così mi è sembrato.

In Trofeo l’orrore delle imprese di un assassino seriale di donne viene raccontato da una gonna: l’indumento di una delle sue vittime.

Mi sono immaginato di aver già letto chissà quanti racconti narrati in prima persona da oggetti e non mi è rimasto che andare a scartabellare nella memoria e nelle librerie.

Avevo quest’idea di un rasoio a serramanico che racconta in soggettiva gli omicidi di cui è stato strumento, ma dove? Vincenzo Pardini? Tiziano Sclavi? Stephen King? Nulla.

Sono arrivato a rileggermi alcuni racconti di Thomas Ligotti, come The chymist, nella Nyctalopes trilogy (mi ero messo in testa che la droga al centro della storia potesse esserne anche la narratrice, un effetto allucinogeno della memoria, degno di quel testo).

Non ho trovato ciò che cercavo, l’oggetto narrante, ma ho trovato la voce: l’inconfondibile voce di tutti i racconti di Ligotti.

Si tratta di una voce sibillina, nel senso che sembra scaturire da una Sibilla interiore: ha la capacità di aderire plasticamente alle emozioni del suo oggetto (o soggetto, cambia poco), è dunque intima, ma proprio come pretende ogni Sibilla, può rovesciarsi nel proprio opposto e sondare all’improvviso le estraneità più sconcertanti.

Tale è la voce del vestito all’inizio di Trofeo. Soprattutto è la voce di una merce: la ferocia e la frenesia del racconto sono già contenute in questo tono.

La storia procede, la vittima incontra il suo carnefice, viene immolata. La veste, pur ridotta a brandelli, non perde la voce; anzi, lei si fa più fonda, eredita i ricordi e le impressioni della donna che aveva indossato la veste, incontra altre voci, di altri oggetti: sono tutti trofei conservati dal serial killer nella sua casa. E dialogano tra loro.

Le tante voci sono molto profonde e, naturalmente, spettrali, quasi metafisiche. Non si tratta più della voce sibillina dei racconti di Ligotti: quella rimane sempre uguale, trattenuta da un puritano ritegno, che la sovraccarica di spietata ironia.

No, questa è un’altra voce, pure questa l’ho già sentita da qualche parte. Ci metto un po’: è in uno degli scaffali più remoti da raggiungere. Mi arrampico.

Ma sì: è la voce dell’orribile bambola impiantata nel corpo di Giorgio Manganelli nel romanzo Dall’inferno, che dialoga con lui e con altre voci.

È metafisica, cava, allucinata: forse ingenua. In una parola, è una voce infantile. Vale per tutti i trofei: un fermacapelli, un gingillo.

Perché arrivati al centro del racconto, infine siamo anche dentro una fiaba. Siamo nella casa di Barbablù - anche lì, se ricordo bene, era un oggetto, una chiave che si macchia di sangue, a condurre fin dentro la stanza degli orrori - o nella casa della Baba Yaga - anche lì, se di nuovo ricordo bene, la protagonista dialoga con gli oggetti, anzi proprio con una bambola.

È arrivato il punto di chiedersi a cosa serva lo strumento narrativo adottato: a cosa servano tutte queste voci e l’ingenuità che si sono conquistate.

Servono, sembra, a prendere una distanza, e a purificare la scena dell’ultimo efferato delitto del mostro. Non perché su quella scena si consumano atroci torture ma perché quel luogo, quella casa, la casa dell’orco, dell’aguzzino seriale, è un luogo troppo frequentato e troppo visto e rivisto, usurato dall’ossessivo consumo di massa.

Senza le voci, senza la loro abissale ingenuità, anche quel luogo letterario resterebbe una merce come le altre.

Così, invece, può ancora trasudare una verità: che l’assassino seriale, “non è qui sul serio, a parte il corpo. Immagino se ne stia nascosto da qualche parte dentro la scena che sta creando, nascosto nei dettagli. Qualcosa ha catturato la sua attenzione e se ne sta nascosto lì dentro, a godersi lo spettacolo. Noi (le voci ndr.) lo sappiamo perché possiamo seguirlo lì dove si va a rifugiare.”

Il mostro è nascosto nei particolari, come un artista.

È l’officiante di un rito, è ossessionato dalla forma.

In un mondo di merci, sembra dire il racconto, si può essere solo artisti o maniaci, senza che tra i due corra una gran differenza. Entrambi sono condannati a guardarsi e poi a guardarsi mentre si guardano. E così via.

E le merci dovranno per forza completare il proprio ciclo (in)naturale: diventare feticci, poi trofei e infine, successivamente, referti.

Da qui l’ambiguità di quelle voci e, nel fondo, di tutta la lingua con cui è scritto Trofeo. Una lingua in apparenza comune e quasi piatta, di consumo quotidiano, ma insieme elastica, nella quale ogni parola può essere stirata a raggiungere un’estensione di significati e implicazioni disturbante, perché “la parola è fetale”: una coltellata tirata al lettore quale, nella letteratura italiana contemporanea, ne sa assestare forse solo Giuseppe Genna, altro frequentatore compulsivo di luoghi oscuri.

E quella voce, quella voce, non potrebbe essere stata, per un istante, nel finale, nel suo esaurirsi, anche quella di Carmelo Bene?

Forse. Ma non serve a nulla. Le merci avranno comunque l’ultima parola.


a cura di Filippo Golia


 

 


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