Gabriela Fantato - Alda Merini. Poesia e corpo desiderante

di Gabriela Fantato

 

Il volume del canto

Il volume del canto mi innamora:
come vorrei io invadere la terra 
con i miei carmi e che tremasse tutta 
sotto la poesia della canzone
Io semino parole, sono accorta 
seminatrice delle magre zolle 
e pur qualcuno si alza ad ascoltarmi,
uno che il canto l’ha nel cuore chiuso 
e che per tratti a me svolge la spola 
della sua gaudente fantasia. 


Alda se n’è andata nel 2009, era nata il 21 marzo 1931. Dopo una vita trascorsa tra la scrittura, gli amori e le perdite, dopo gli anni di manicomio e quelli vissuti nella sua casa, un piccolo appartamento sui Navigli, a Milano, ci resta la sua poesia dirompente e dolorosa. Avevo conosciuto la poetessa nel 1992, quando stava leggendo in pubblico i testi da La Terra Santa (Scheiwiller, 1983, ristampata in Vuoto d’amore, Einaudi, 1991) e ne fui colpita, successivamente la conobbi di persona, grazie all’idea di Luisella Veroli di invitare la poetessa come “figura magistrale” agli incontri di poesia che avevamo ideato, a fine Anni Novanta, presso la Associazione Culturale Melusine, in via Del Torchio, a Milano. Le poesie della raccolta Vuoto d’amore sono senza dubbio le più importanti di Alda, infatti, ancora oggi è come se quelle parole provenissero da una profondità inesprimibile, testi scritti in una lingua in bilico tra presenza al mondo e assenza, tra vita quotidiana e un'altra dimensione a cui tendono. Maria Corti, nell’introduzione alla raccolta citata, sottolineava l’identità salvifica di vita e poesia in Merini, come se la scrittura di questa autrice fosse imprescindibilmente legata alla sua esperienza tragica, da cui la parola trae forza. Ricordiamo che Alda aveva esordito a solo 16 anni, quasi «rispondendo a una chiamata», si legge in Reato di vita (Melusine edizioni, 1994), a cura di Luisella Veroli, un’interessante biografia di Merini, con parole della stessa poeta, testi e testimonianze inedite.

La scrittura di Merini era stata notata da autorevoli critici, tra cui Giacinto Spagnoletti, poi la riconobbero come poetessa significativa anche altri poeti e critici, tra cui Davide Maria Turoldo, Giorgio Manganelli, Montale, Maria Luisa Spaziani, Pasolini, Oreste Macrì, Quasimodo e altri. Insomma, Alda sin dagli anni ’50 ebbe grande attenzione grazie alla sua prima raccolta La presenza di Orfeo (Schwartz, 1953 poi ristampata da Scheiwiller, 1983) e va sottolineato che la figura mitica di Orfeo, evocato dal titolo della raccolta, svela la derivazione orfica di questo scrivere sin dal suo esordio, dove è detta la natura arcaica e arcana di un’ispirazione che trae forza dalla visitazione dell’ombra, dal tentativo di dar voce all’enigma da cui giunge la parola poetica. «[Orfeo] è il linguaggio che si rivolta a guardare la parola: il maschio e la femmina. È il linguaggio non ben articolato. Quando il linguaggio è ben articolato deve ferire, deve colpire», afferma Alda sempre in Reato di vita

Alda si era sposata con Ettore Carniti, da cui ebbe le amate figlie, ma più tardi qualcosa accadde nella sua esistenza e si spezzò l’equilibro: una sorta di frattura che lei stessa dice la portava a vedere l’inferno e le impediva di fare qualsiasi cosa nella vita quotidiana. Ebbe così inizio l’esperienza di internamento in ospedale psichiatrico, a Milano, prima a “Villa Turro” e dal 1965 al “Paolo Pini”: iniziò l’incontro con la psichiatria, in una reclusione di quasi vent’anni. In quegli anni, Alda inziò a scrivere di getto tutti i suoi pensieri e le sue emozioni, a scopo terapeutico, erano anni in cui la poetessa si sentiva in «una foresta nera» ed era «murata viva», leggiamo ancora in Reato di vita

Nel 1979 Alda riprese a scrivere poesia ed emersero così i testi de La Terra Santa, infatti, proprio da quel luogo di dolore e perdita che era il manicomio la poetessa trasse la sua “nuova parola”, perché «da chi inganna stupra e offende gli inermi mi ha salvato il manicomio», leggiamo nella biografia citata. Fu l’incontro con la psicoanalisi a permetterle la discesa nell’ombra e la risalita dall’oscurità attraverso la poesia: un viaggio da cui Merini trasse la sua voce concreta e ispirata, carnale eppure intrisa di religiosità. Ecco un testo di Vuoto d’amore:


Lascio a te queste impronte sulla terra
tenere dolci, che si possa dire:
qui è passata una gemma o una tempesta,
una donna che avida di dire
disse cose notturne delicate
una donna che non fu mai amata.
Qui passò forse una furiosa bestia
avida sete che dette tempesta
alla terra, a ogni clima, al firmamento,
ma qui passò soltanto il mio tormento.


Notiamo la molteplicità di personificazioni per dire l’identità dell’autrice che passa dal definirsi donna, gemma e tempesta, sino a nominarsi «furiosa bestia»: una creatura luciferina rivolta al cielo. Troviamo in La Terra Santa molti testi in cui il luogo fisico dell’internamento è nominato in parole che, dicendo l’orrore, la mancanza e la privazione, aprono varchi, il che rivela la natura oscura e misterica dell’ispirazione di questa autrice che scava nell’ombra, per trarne luce in poesia:


Manicomio è parola assai più grande 
delle oscure voragini del sogno,
eppure veniva qualche volta al tempo 
un filamento di azzurro o una canzone 
lontana di usignolo e si schiudeva 
la tua bocca mordendo nell’azzurro 
la menzogna feroce della vita.
O una mano impietosa di malato 
saliva piano sulla tua finestra 
sillabando il tuo nome e finalmente 
sciolto il numero immondo ritrovavi 
tutta la serietà della tua vita.


Dall’esperienza di scrittura di Alda Merini mi sorge una domanda: “Dal vivere l’esperienza dolorosa del corpo scaturisce la voce poetica?” 

Un quesito che mi rivolgo da sempre, perché credo che ci sia un rapporto complesso e dinamico tra vita e scrittura, tra l’esperienza carnale e la voce che ne scaturisce. Oltre ad Alda Merini, infatti, ho avuto occasione di notare come in tante altre scritture di donne ci sia la centralità del corpo: un corpo violato, non amato ed estraniato: corpo senza amore. Il corpo è centro dell’abitare il mondo per tutti, essendo centro dell’intenzionalità del nostro vivere, potrei dire come sottolineava già decenni fa il filosofo Merleau-Ponty, e come ha ribadito la filosofa spagnola Marìa Zambrano

La scrittrice spagnola critica l’impostazione tradizionale della filosofia, ancorata unicamente alla ragione e dimentica della matrice carnale del vivere, per ribadire la centralità del sentire, dichiarando la necessità di ritrovare un’unità ancestrale di pensare e sentire, attraverso la centralità del corpo, concetto rimosso dal pensiero filosofico, per secoli. Voglio qui ricordare Non sono mai stata via. Vita in esilio di Marìa Zambrano (rueBallu edizioni, 2020), di Nadia Terranova, una biografia di questa grande intellettuale.

Nella relazione chiasmatica tra Io e mondo scaturisce la parola: ponendo al centro il corpo desiderante si potrebbe intuire forse un approccio nuovo alla poesia.  Dal malessere profondo del corpo, a volte detto “follia”, scaturisce la poesia di Alda Merini, ma pensiamo anche ad altre figure, come Dino Campana, per citare uno tra i poeti più noti. Pensiamo anche da quanto dolore e privazione siano nate le parole di varie autrici, come Amelia Rosselli, Antonia Pozzi, Patrizia Vicinelli, ma questo vale anche per Marina Cvetaeva, Silvia Plath, Anne Sexton… e potrei continuare.

Tornando ad Alda, mi pare interessante sottolineare come la sua poesia rifugga la coerenza logico-semantica, creando scarti sintattici e immagini poetiche fondate sull’analogia e il balzo logico: l’ambivalenza è centrale, tanto che la parola di Merini è lingua di soglia che nega la contrapposizione propria della cultura occidentale tra corpo e mente; tra terra e cielo, tra sacro e profano. Forse va riletta l’intuizione della straordinaria poetessa russa Marina Cvetaeva che annotava: «Ciò che per l’uomo comune è carne, per il poeta è puro spirito», dove si ripropone la centralità del corpo, dal poeta avvertito come luogo della vita spirituale. Corpo, dunque, come unità dell’essere con cui noi abitiamo il mondo e da cui nasce la poesia. 

A conferma di quanto scritto, voglio concludere citando due poesie di Alda Merini da La Terra Santa: una poesia dove viene sottolineata la dimensione dinamica dentro/fuori, tanto che emerge l’estraneità avvertita tra mondo "normale” e la poetessa che si sente “diversa” e offesa dal mondo:


Al cancello si aggrumano le vittime
volti nudi e perfetti 
chiusi nell’ignoranza,
paradossali mani 
avvinghiate ad un ferro
e fuori il treno che passa 
assolato leggero,
uno schianto di luce propria 
sotto il mio margine offeso.


Infine, un altro testo dove emerge la trasformazione del soggetto che proprio nella perdita dell’Io, nell’anonimato manicomiale pare acquisire potenza nuova di una voce che sa farsi eco di molte altre voci, trovando anche una nuova “misura”, ma si nota anche la coesistenza, sempre presente nei versi di Alda Merini, tra percezione del carnale del vivere e tensione religiosa:


Il manicomio è una grande cassa 
di risonanza
e il delirio diventa eco 
l’anonimità misura,
il manicomio è il Monte Sinai,
maledetto, su cui tu ricevi 
le tavole di una legge 
agli uomini sconosciuta.


Qui la voce poetica sembra emergere dal corpo che ha subito il dolore e ha acquisito proprio in questo sopruso una nuova legge, come sul Sinai il popolo ebraico. Un ritmo, una cadenza precisa viene “imposta” a partire dall’esperienza in manicomio, un’esperienza vissuta nella carne, su un corpo martoriato dall’internamento: esperienza di espropriazione del e rinascita con l’acquisizione di una nuova identità arcaica e potente.  
La poesia di Alda Merini ancora ci pone domande, ancora ci tocca da vicino… e chiede ascolto.


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