Amor mortis: il destino del femminile nella lirica come nella poesia- di Stefania Giammillaro

di Stefania Giammillaro


Non si parlerà dell’ Amor mortis di pavesiana memoria, notoriamente riconducibile ai versi: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi/questa morte che ci accompagna/dal mattino alla sera, insonne,/sorda, come un vecchio rimorso/o un vizio assurdo. […] O cara speranza/ quel giorno sapremo anche noi/che sei la vita e sei il nulla/Per tutti la morte ha uno sguardo. […]”, così come alle riflessioni diaristiche raccolte ne Il mestiere di vivere (Diario 1935-1950) Einaudi, 2014: “Non manca mai a nessuno una buona ragione per uccidersi” (23 marzo 1938). No. Scopo del presente contributo è sondare lo scandaglio dell’Amor mortis quale accogliente consapevolezza della “morte”, che attinge dal fuoco degli Dei rubato dal titano Prometeo per donarlo agli uomini, senza il quale, appunto, sarebbero morti.

La consapevolezza di un destino tracciato, la scelta tra la morte fisica o quella della propria affermazione personale, che attraversa i drammi delle protagoniste femminili delle più celebri opere liriche.

Non esiste riscatto, via d’uscita, se non l’estremo saluto per Violetta Valery, protagonista de La Traviata (1853), celebre Opera di Giuseppe Verdi, che trae origine dalla Signora delle camelie di Alexandre Dumas figlio, a sua volta ispirata al personaggio reale di Alphonsine Plessis.

Lo scandalo creato dalla storia d’amore tra la donna e il giovane dell’alta borghesia Alfredo, soffoca Violetta alla cruda rassegnazione che non esiste via di scampo alla sua sorte già segnata, sì da condurla a sacrificare la propria salvezza personale e sociale (in vita) per salvare l’autenticità del suo sentimento amoroso.

La morte non è amara, ma è trionfo, non è condanna, ma affermazione di sé. Il dramma non consta nell’esalare l’ultimo respiro, ma nel non poter liberamente scegliere in vita il percorso da intraprendere, allora si sceglie di morire, per spiccare il volo.

Identico, ineluttabile dramma che - da notare l’ossimorica metafora sottesa in tutta l’Opera e racchiusa sin dal titolo – si rinviene ne La Rondine di Giacomo Puccini.

Anche in tal caso il destino è segnato, ma è proprio la protagonista che decide di non capovolgerlo, sempre per non compromettere il suo amato. Qui, però, diversamente che da Violetta, sono forze intrinseche che determinano Magda, la protagonista, a gettare la spugna, a non accettare la proposta di matrimonio di Ruggero, a declinare l’invito al radicale cambiamento.

Ruggero: “Ma come puoi lasciarmi se mi struggo in pianto, se disperatamente io m'aggrappo a te! O mia divina amante o vita di mia vita non spezzare il mio cuor!

Magda: “Non disperare, ascolta: se il destino vuole che tutto sia finito pensa ancora a me! Pensa che il sacrificio che compio in questo istante io lo compio per te!”

Diventa dunque più estrema in Puccini l’impossibilità di un’emancipazione, perché ne La Rondine, è la stessa Magda che ritorna a “volare” nella sua precedente vita da cortigiana.

La condanna sin qui tratteggiata ritorna ed emerge in tutta la sua tragica veemenza in una delle poetesse tra le più grandi del Novecento e, al contempo, tra le più dimenticate: Fernanda Romagnoli (Roma 1916 - Roma 1986).
 



Falsa identità


Prima o poi qualcuno lo scopre:
io sono già morta
da viva
. È di donna straniera
la faccia tra i capelli in giù sporta
che subito si ritira,

l’ombra che dietro le tende
s’aggira di sera,
il passo che viene alla porta
e non apre. Suo il canto
che intriga i vicini coprendo
i miei gridi sepolti. Qualcuno
prima o dopo lo scopre. Ma intanto…


Lei a proclamarsi non esita,
lei mostra il mio biglietto da visita.
Io nel buio, in catene, a un palmo
da voi di distanza
, sul muro
graffio questa riga contorta:
testimonianza che mio
era il nome alla porta, ma il corpo
non ero io.

Nella Romagnoli si palesa tragico il divario della scelta tra moglie-madre-poeta, che la poeta esprime in un costante senso di colpa: ancora, la tragedia della non-liberazione, della non esternazione del proprio “io”. Il fare poesia diventa per la donna stigmatizzazione sociale perché foriero del pregiudizio di allontanarla dalla cura del nido familiare. La poesia però si sostituisce al trofeo della morte e s’intercetta coma unica possibile “àncora di fuga”, un investimento che si fonda sul carattere indelebile della scrittura consegnata ai posteri.


Fonti:

Commenti

Posta un commento

Post più popolari