UMAMI, DHARMA E BARBABIETOLE - Pietro Edoardo Mallegni - Passami la tuta disindividuante ( o come scoprire se stessi può rivelarsi una tragedia )

 

Pietro Edoardo Mallegni

Millenovecentosettantasette. Un anno pieno, gravido di avvenimenti, di idee e lotte: nasce il movimento omonimo, esce il primo Star Wars, muore Elvis Presley, si apre il processo a carico di Freda e Ventura per la strage di Piazza Fontana, l’uscita in America di un libricino geniale, partorito da un altrettanto geniale scrittore:  Philip Kindred Dick


Aperta parentesi. Non starò a dilungarmi su chi era e cos’altro ha scritto, se lo conoscete non ha bisogno di molte presentazioni, se non lo conoscete è arrivata l’ora di fare ammenda per i  vostri peccati; credetemi, sarà molto più piacevole di quanto vi aspettiate e, in poco tempo, avrete divorato i suoi testi, come si divora una costoletta d’agnello panata e fritta. Chiusa Parentesi. 


Il libricino in questione è “A Scanner Darkly - Un oscuro scrutare”.  Non il più popolare tra i suoi scritti e che potrebbe essere riassunto: in un futuro prossimo un poliziotto sotto copertura diventa un tossicodipendente, si brucia completamente il cervello, scopre che l’azienda che si occupa della disintossicazione è la stessa a produrre la droga, ma non è capace di portare al mondo la sua scoperta, dietro a tutta la sua storia si nasconde un gioco di poteri politici, spionaggio e controspionaggio (bello il dono della sintesi? È come iniziare a fare l’amore e all’improvviso ritrovarsi catapultati sotto la doccia).  


In quasi tutti gli scritti di Dick c’è sempre un paradosso scientifico o tecnologico, dove ciò che nasce per esserci utile improvvisamente si trasforma in ciò che ci distrugge o almeno non segue più il percorso lineare tra la volontà, l’azione e il risultato prestabilito. Nella fattispecie qui troviamo: la tuta disindividuante, un capo a tutto corpo capace di proiettare frammenti di migliaia di persone ogni secondo, rendendo l’individuo  che la indossa una macchia umana in continuo mutamento, per tanto un Signor Tutti e allo stesso tempo un Signor Nessuno. Questo particolare equipaggiamento viene indossato dagli agenti sotto copertura per tutelare la loro identità all’interno di uffici e luoghi istituzionali. 

Come dicevamo prima, il protagonista purtroppo non riesce a gestire la sua vita  nel migliore dei modi, Bob Arctor purtroppo comincia ad avere qualche problema cognitivo a causa del quantitativo esagerato di droga che assume per non destare sospetti nel gruppo  nel quale si è infiltrato. 

“ Non esistono tossici della domenica con la Sostanza M, o ci sei dentro o non l’hai provata”


Proprio perché privo di identità negli uffici di polizia, al fine di non destare alcun sospetto, è costretto a fare rapporto persino sui suoi comportamenti e, un giorno, il suo capo, anche lui indossando la tuta, gli dice che i vari sospetti su chi sia il vero anello di collegamento con i grandi spacciatori ricadono proprio su Bob Arctor, quindi, deve  essere seguito di più, al fine rintracciare i narcotrafficanti.  Il paradosso:  l’anonimato completo diventa il cardine fondamentale per dimostrare la propria innocenza, cioè “io che non sono io devo dimostrare che io sono innocente” 


Fiducioso nel sistema, porta avanti le indagini, ma purtroppo i suoi problemi di tossicodipendenza gli creano qualche difficoltà : prima e dopo non sono più così distinguibili, nomi e visi non combaciano più con la realtà,  amnesie che lo portano a dubitare di se stesso e, per qualche attimo,  a credere della sua colpevolezza. 

Io che non sono io dubito che io sia innocente” e nel divenire ancora più paradossale  “Bob Arctor che non sono io è innocente e io devo dimostrare di essere  Bob Arctor”,


Dimostrare di essere. 

In un libro oramai dimenticato , racchiuso nel gioco di spionaggio e controspionaggio Dick è stato capace di descrivere, forse,  il problema umano  più grande di oggi. Cosa vuol dire “IO”; coniugare tutti i verbi possibili alla prima persona singolare per circoscrivere la definizione di sè. Io dico. Io faccio. Io lavoro. Io voto. Io cresco. Io sbaglio. Io salvo. Io uccido. E in allegato lo sconfinato universo dei “non”. Tutta una serie di tratteggiati confini tra l’essere e l’altro che ci piace disegnare come giochini di collegamento numerico sulla “Settimana enigmistica” nella speranza di avere un’immagine che sia piacevolmente riconoscibile. Dirci soddisfatti di un risultato preimpostato e pensare che la libertà sia una linea più curva tra il punto tredici ed il quattordici o usare la penna viola al posto della nera, così come in un passatempo da fare sotto il sole sulla sdraio, ci siamo e ci hanno “fo***ti”. Incalzati da un sistema gravido, pieno di risposte, abbiamo lasciato che la domanda “Chi sono?” potesse avere una soluzione a crocette, convincendoci che non esistevano errori e limiti e, in fondo al nostro esame, compilando il nostro compito come bravi alunni, abbiamo dato all’altro la capacità non solo di definirci (un po’ Pirandelliano? Sennò dicono sempre che sono così poco italiano), ma di catalogarci, annettendo alla fine di ogni pagina il metodo per distruggerci. 

A questo si aggiunge una percezione del mondo quasi sempre duale: buoni e cattivi, guardie e ladri, lavoratori e datori di lavoro. Perché questo? Perché ci aiuta; ci fa comodo ragionare così e ci siamo lasciati assuefare da questo metodo di ragionamento  e spesso  il dualismo si riduce al me contro te; da qui arrivare al “Mors Tua Vita Mea” è questione di secondi. 


Ma Arctor alla fine si salva? Riesce a dimostrare di essere innocente? In verità tutte le accuse a lui mosse erano un mero gioco del suo capo in tuta, (che si rivela essere la sua compagna  Donna Hawthorne, anche sua prima fornitrice di droga e che egli stesso credeva l’anello di collegamento ai grandi spacciatori) per farlo ricoverare presso “Il Sentiero” e dimostrare che la “Sostanza M” è prodotta da coloro che forniscono la cura. Il costo di tutto? Distruggere  Arctor. Renderlo una scatola umana vuota, dove l’io non c’è più. In questo lui stesso in un momento di semi-lucidità e riflessione capisce dove risiede la sua colpevolezza: essersi costruito un’esistenza perfettamento canonica che odiava. La famiglia, il lavoro, la casa, persino la falciatrice erano i trattini dell’immagine preimpostata e, per ridisegnare l’io, non poteva fare a meno di distruggere tutto ciò che era altro, spappolando la sua identità, la sua immagine, le sue certezze. 


La conclusione? Si potrebbe concludere che per dire “io” contraiamo un debito con l’altro e in questo c’è un’ economia persino dell’identità; si potrebbe concludere che per dire “io” non esistono risposte sbagliate, ma esistono modi sbagliati di rispondere; si potrebbe concludere che per dire “io”, senza voler corrispondere a canoni, dobbiamo accettare lo straniero che è in noi. Si potrebbe concludere…. ma forse è meglio di no.  






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