RUGIADE – Stefania Giammillaro su “Sopravvivenza in acqua” di Alba Gnazi (Arcipelago Itaca, 2025)
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"Sopravvivenza in acqua" di Alba Gnazi (Arcipelago Itaca, 2025) |
Secondo
l’enciclopedia Treccani per “apnea” - dal greco ἄπνοια, "mancanza di
respiro" - s’intende “una
transitoria sospensione della respirazione polmonare, dunque l'assenza del
processo di ventilazione che ricambia l'aria negli alveoli polmonari”. Al contempo,
l’acqua rappresenta da sempre il primigenio
indice di vita, sia dal punto di vista biologico che spirituale e in tale
accezione è stata assorbita nella tradizione poetico - letteraria come metafora
di nascita, rinascita, oltre che di purificazione. Il titolo “Sopravvivenza in acqua” dell’ultima
silloge di Alba Gnazi, pubblicata
per la casa editrice Arcipelago Itaca nell'aprile 2025, sembra combinare l’ “acqua” non solo o non semplicemente con
la vita, rectius, con la perdita, l’assenza della stessa, ma con la resistenza, che si fa apnea di sopravvivenza e quindi
resilienza a non soffocare nonostante la perdita/assenza. La silloge è dedicata
al padre Gerardo, non solo in apertura al libro, ma nella filigrana delle
pagine, in ciascuna sillaba e fiato che vale a pronunciarle per scandire il
verso. Il verso, quale e quanta sapienza trasuda dal verso della Gnazi!
La nostra
autrice parla di perdita e di dolore, ma lo fa come se camminasse a passo
deciso sulla sabbia, lasciando tracce, ma colmando vuoti, invece di crearli (il padre sparso/nel riflesso che ci
somiglia,/il padre che/ ha divorato il vuoto), salvando dal bilico l’equilibrista
sospeso sul filo del precipizio.
Il
titolo scandaglia anche la prima divisione in sezioni, anticipate da una sola
poesia in “Interstizi” per poi procedere, appunto, nella “Sopravvivenza in acqua” della “Estate”,
e poi in un climax a detrazione, solo “In acqua” dello “Autunno”, “Fuori dall’acqua”
dello “Inverno”; la “Primavera” si collocherà alla fine del
ciclo (vitale) delle stagioni ne “Il
tempo senza”.
Un
libro di dolore che grida al perché della
perdita, senza prestare il fianco al vuoto cosmico sibillino, ma un perché che cerca spazio e lo occupa in
mezzo al dolore.
La parola ha una sua postura ben precisa, una presenza chirurgica, il verso la condensa in un meditato intreccio di figure retoriche, specie del suono, ché la poesia si fa così rimando all’altro e all’altrove. Un componimento, in particolare, al meglio esemplifica il sopradetto lavoro sul poetare la parola, “crearla dal nulla” per “creare qualcos’altro”, portato avanti nel segno del devoto rispetto alla poesia, anche nella sua matrice dal sapore pascoliano.
Non il vento, ma il tuo respiro
tutto qui compone e sgrana,
dal greto spinoso del fosso,
dal campo già pronto per l’orto
alle trame di terra ora chiara ora bruma,
a quando (ricordi?) mi smarrivo tra le spighe
e gli echi vitrei di una voce sempre più lontana
e in quel zigzag a perdifiato
tra i fusti e le
ombre,
col gri-gri delle rane poco oltre,
straripante e sola in me
ti chiamavo, e tu comparivi di colpo:
eri uno schianto d’erba secca
e gioia impazzita,
eri dio, il mio sole corrucciato e ridente,
infinito.
Ora è la stagione, dicono, della caccia;
non mi sono persa più tra le spighe, ma altrove sì – di
lei, dicono,
nemmeno più una
traccia –;
le tue dita bianche cuciono i lembi
tra le onde del tempo, nel passo lento
che ogni vita a sé riduce
tu anziano mai vecchio,
tu bimbo mai sazio,
un Big Bang a moto inverso
dalla fine all’inizio,
dove attesa
è svolgimento,
è tempesta e cedimento,
e sono padre e tu sei figlia,
mio il respiro nel tuo passo,
tuo il principio di ogni compimento;
te-me, noi-te moltiplicati per cento,
e su ogni cosa (ascolta bene, senti),
su ogni cosa, sempre
il vento
(p.29)
Può
considerarsi, questa, almeno a parere di chi scrive, la “poesia manifesto” dell’intera silloge, dove si riassumono i temi
affrontati dalla poeta, ossia: il dio minuscolo umanizzato nel padre a sua
volta reso presente nel vento, il bianco, il tempo, l’assenza. Temi qui sciorinati
attraverso onomatopee (gri-gri, zigzag, Bing Bang), epanadiplosi in antitesi (ora chiara ora bruma) e la potente
ricorrenza del correlativo oggettivo (il
mio sole corrucciato e ridente).
A
proposito di epanadiplosi, ossia la ripetizione della medesima parola ad inizio
o a fine verso, nel componimento in esame ricorre anche all’inizio e alla
fine del medesimo, a compimento di una struttura circolare; nella Gnazi è
ricorrente l’uso dell’anafora, quasi a voler sposare l’idea di Milo De Angelis, secondo il quale la
poesia è ripetizione: “[…] E le mani, che
mani erano quelle,/grigie e strappate, mutile/di piacere, da cui i figli
imparano/che sono le mani a dire /quali scelte certi uomini hanno” (pag.
21).
E la
poesia è ripetizione se è vero, come per chi lo crede vero, che è poeta colui
che è profeta di ciò di cui si accorge e che ha urgenza di rivelare.
La
perdita si sostanzia nell’assenza fino a concentrarsi nel “senza”, recuperando
quel dibattito di natura filosofico-esistenziale che prova a rispondere alla
domanda: Cosa regola la nostra presenza,
cosa parla del nostro stare al mondo, del nostro esserci: lo spazio che
occupiamo o il vuoto che lasciamo?
Sembra
quasi rievocare, al riguardo, le note teorie filosofico-matematiche che si sono
contrapposte nel XVII secolo tra relazionisti (Leibniz) ed assolutisti (Newton)
per poi essere sintetizzate il secolo dopo dal filosofo Kant, che, dopo aver processato la “Ragione”, sostiene che le
nozioni di spazio e di tempo non possano considerarsi come caratteristiche
oggettive del mondo, in quanto imprescindibilmente legate alla nostra
esperienza. Concezione quest’ultima ripresa poi da Husserl, ma criticata da Heidegger,
secondo cui nella filosofia trascendentale di Kant, nonostante lo stretto
legame del soggetto col mondo ed i suoi oggetti, spazio e tempo sono ancora
troppo dipendenti dal soggetto per aspirare ad una comprensione autentica del
mondo e del suo rapporto con l’esserci.
Lo spazio per la Gnazi è senza, il tempo è senza:
È
lì che ti cerco (p. 70-71)
La pioggia addomestica
l’ululato dei cani,
lo sghimbescio del buio,
il ritardo della sera
a farsi quiete
dove un tempo
indossavo l’ora felice
e non cincischiavo le mani
sul vetro, cercando
tra le righe verticali
il tuo dito sgretolare l’assenza
con un semplice indizio,
fracassare la distanza
dal principio, modellare
con lo sguardo la complicità
di sedersi accanto
in un giorno di pioggia
quand’è quasi inverno,
condividere pane e olio
e il gocciare tutt’attorno.
E ora è lì che cerco
un segno, un verso, un cenno
un fischio,
quello di quando
entravi in casa e il cuore
mi ballava nel petto;
dicevo ecco il nonno!
e sapevo che eri
contento.
Nel tempo prima, nel tempo senza:
io è lì
che ti cerco.
In questo
spazio a sottrazione, in questo tempo a sottrazione, dove il “bianco è il nome dei morti” (p. 83)
perché colore dell’assenza, perché non-colore, ecco, in questa dimensione la
poeta trova la sua preghiera lontana dal “dio
grasso e confuso/che ancora ride/e gratta e sospira/e borbotta e soprassiede/al
fiato che manca (p.23)”, ma in comunione con il Padre mio (p. 75) che “non sei nei Cieli”, ma cui anela l’unico
battito lasciato nel tempo presente del cuore.
Padre mio che ti espandi nel cuore
che mi esplodi nel cranio
e ovunque te
spargi, mio verdissimo
interminato amore
Padre mio del tempo futuro
cancellata sia ogni tua morte
la mia sola ombra sul muro
quando ti siedi e cominci a parlare
Padre mio e di ogni vuoto che lasci
della tua vanga, della tua giacca,
del fuoco acceso e del tepore
trafitta assenza dal quotidiano fiorire
Padre mio, Padre a me dato
che qui e ovunque trovo
che mai ho meritato
mio l’inconcluso cercarti,
tuo l’amoroso restare.
Sì, “restare”, nell’unico
verbo senza tempo cui accede l’azione in un infinito
amare.
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Alba Gnazi |
Alba Gnazi è nata e risiede in
provincia di Roma. Insegna nella scuola pubblica.
Le sue raccolte edite
sono: Luccicanze (Cicorivolta Editore 2015; con prefazione di Antonino
Caponnetto); Verdemare - Cronologia inversa di un andare (La Vita Felice
Edizioni 2018); In quel minimo che cade (Il Convivio Editore 2021; con
postfazione di Franca Alaimo) |
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