POESIA E ALTRE FORME - Massimo Maggiore - Architettura, poesia e il senso del tempo. Ogni opera è contemporanea.
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| Massimo Maggiore |
Inizia con questo mio intervento la collaborazione con Finestre lit-blog, con una rubrica dedicata al rapporto tra poesia e altre forme espressive. Tra di esse in particolare l’architettura, che, come la poesia, si esprime per simboli, metafore, ritmi, armonie e, come la poesia, si rapporta con lo spazio esteriore ed interiore. Cambia naturalmente il significante e cambia la sollecitazione sensoriale e quindi intellettuale che l’opera dell’architettura pone a chi la osservi. Cambia in altri termini la modalità, ma non l’area semantica, il tentativo di costruire un senso che umanizzi ciò che ci è fondamentalmente estraneo e avverso, la natura con la sua organicità, alla quale si contrappone l’inorganicità della ricerca di senso.
Non sono un architetto e con l’architettura ho solo un rapporto di curiosità nutrita di passione, lo stesso che mi avvicina a pressoché tutte le altre forme di espressione artistica, di cui sono parimenti un disarmato amatore. Assorbo e lascio che ciò che mi circonda risuoni in me e con la mia inclinazione poetica, la mia sensazione del Mondo.
Cercando di risalire a ritroso verso l’inizio delle mie personali elaborazioni sul rapporto tra poesia e architettura, le attualizzo nel momento rappresentato da una fotografia, che ancora conservo, del me sedicenne al terzo anno di liceo, seduto insieme ai compagni di classe sui gradini del basamento del Partenone.
Dell’antico tempio dedicato ad Athena Parthenos rimaneva e rimane un’idea archeologica, non più la struttura magniloquente dell’origine. Non sono più lì i colori, i complessi scultorei di Fidia che ne decoravano i fronti orientale e occidentale, pochissime le metope e i fregi rimasti, tra quelli che correvano lungo tutto il perimetro al di sopra del colonnato; è crollato il tetto, in parte le colonne, è scomparsa del tutto la cella interna e con essa la statua colossale d’oro e avorio di Athena che custodiva.
Non c’è più soprattutto il tempo della comparsa del Partenone, non ci sono intorno ad esso i greci dell’Atene 400 anni prima di Cristo, con la loro idea di religiosità molto vicina alla terra, priva di angosce escatologiche, in cui ogni divinità era epitome di qualità umanissime, con una cultura impregnata del “thauma”, la meraviglia da cui secondo Aristotele solo 200 anni prima nacque la filosofia occidentale, a sua volta filiazione del mito. Una struttura architettonica, quindi, affatto cambiata nel presente dell’osservatore di oggi che si rapporta con la coscienza del tempo, ovvero con la sua ricostruzione storico-narrativa.
Mi pare qui si possa già tracciare un primo parallelismo tra il fatto poetico e il fatto architettonico: entrambi si confrontano con tempi apparentemente asincroni (quello del momento della creazione dell’opera e quello di chi ne fruisca), ma che coincidono inevitabilmente nel solo tempo presente di chi legga nel suo preciso istante un componimento poetico, ovvero si sieda sui gradini della costruzione storica in apparente rovina.
Uso l’aggettivo apparente, perché il fatto che il tempio sia in rovina non è un dato che si offra alla naturale sensibilità del visitatore. È un dato puramente culturale, determinato dalle conoscenze acquisite ex post dal visitatore medesimo. Intendo qui dire che il Partenone era per me, in quel momento seduto sugli scalini, una pura intatta epifania, che comunicava con me attraverso archetipi e parametri precognitivi, che funzionavano di per sé, al di là della conoscenza acquisita dopo dal liceale dell’epoca, su come apparisse effettivamente il Partenone quando fu eretto, circa 2500 anni prima. Questi archetipi erano dati dalla collocazione del tempio nello spazio, in cima all’Acropoli, dalle sue dimensioni, dalla scansione regolare delle colonne lungo il perimetro del tempio e quindi dal ritmo che esse conferiscono all’insieme, dal gioco di vuoto e pieno/luci e ombre, visibile e invisibile della costruzione, dalla sua disfunzionalità, ossia dal non avere un rapporto con la funzione propria di offrire riparo. Con il suo colonnato aperto verso l’esterno essa è un andito, un invito alla conoscenza.
Archetipi percettivi, come dicevo, che si pongono in un dialogo non mediato col visitatore e sono a-temporali, indipendenti da qualsiasi sapienza acquisita che arricchisca quegli archetipi di informazioni storiche. Quel che esiste è solo il Partenone che si presenta al visitatore in quel preciso istante. Ogni costruzione d’architettura vive quindi nell’ambiguità di essere un segno storico, che però si destoricizza nel momento in cui vive nel presente dell’osservazione pura e ignara.
Se posso azzardare un paragone, che coinvolge un’altra mia passione – quella per il cinema – il rapporto che un’opera dell’architettura come il Partenone instaura con quello che definisco l’osservatore puro (e ignaro) non mi sembra poi tanto dissimile da quello che Kubrick ha rappresentato all’inizio del suo 2001 Odissea nello Spazio, mostrando dei primati al cospetto di un misteriosissimo monolite:
Questo momento del film rappresenta a mio modo di vedere l’avvento della forma nell’informe della natura.
Qui emergono alcune analogie con la poesia o, meglio, con la mia personalissima concezione della poesia. Ritengo infatti che, come l’architettura, anche la poesia sia animata da un intento di conformazione dell’esperienza, che è poi un altro modo per dire che la poesia come l’architettura intendono conferire senso facendo leva su un linguaggio che sollecita il superamento del significato immediato e comune della forma geometrica o della parola, verso una trascendenza fatta di simboli, metafore e, come detto, archetipi.
Insomma, se una permanenza, un elemento di eterno si può intravvedere tanto nella poesia che nell’architettura, essa è data dalle componenti elementari dei significati di cui entrambe si fanno portatrici. Non dal significante, non dalle forme espressive, che cambiano. Mi si potrebbe obiettare che ciò non è vero, anzi è smentito, quanto all’architettura, proprio dalla plastica manifestazione di una decadenza dovuta dal trascorrere del tempo e ancor meno è vero per la poesia, per la quale le parole rimangono immutate nei secoli, finché ci sia un medium che le tramandi.
Tuttavia questo a mio avviso si può porre in discussione. Perché il presente, foss’anche di un testo formalmente immutato, cambia inevitabilmente per effetto del contatto col percipiente, che è sempre attuale, ovvero “contemporaneo”. Faccio un esempio, utilizzando il primo sonetto de La Vita Nova di Dante:
A ciascun’alma presa, e gentil core
nel cui cospetto ven lo dir presente,
in ciò che mi rescrivan suo parvente
salute in lor segnor, cioè Amore.
Già eran quasi che atterzate l'ore
del tempo che onne stella n'è lucente,
quando m'apparve Amor subitamente
cui essenza membrar mi dà orrore.
Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e ne le braccia avea
madonna involta in un drappo dormendo.
Poi la svegliava, e d'esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea:
appresso gir lo ne vedea piangendo.
Al pari del Partenone, questo scritto, letto in questo momento, spogliato delle forme dell’italiano desueto che lo caratterizza, instaura integralmente una comunicazione di tipo archetipico: parla dell’amore attraverso l’allegoria di un sogno che il poeta ebbe nove anni dopo il primo incontro con Beatrice, quando entrambi avevano diciotto anni. Nel sogno il poeta vede il dio Amore che tiene in braccio la donna amata e il cuore di lui, che poi fa mangiare a Beatrice. Dante indirizza quindi il sonetto ad altri poeti, perché gli spieghino il senso della visione, al quale risponderà poi Cavalcanti.
Qui gli schemi universali dell’amore sono tutti presenti e soprattutto emerge con vigore qualcosa che all’epoca non aveva nemmeno un nome, l’inconscio che si esprime attraverso il sogno. Sogno, amore e l’arcano destino di quell’amore, addirittura minaccioso, sono le colonne rimaste in piedi, insieme ai resti dei muri all’interno del tempio, che delimitavano la cella in cui si celava Athena. Tutto il resto – mi si perdoni l’ardire di quanto sto per dire ma è funzionale al discorso – conta poco, conta l’attualità del testo.
Per concludere queste riflessioni, mi rifaccio a un altro testo poetico, molto più recente e che per il modo che ho di intendere la poesia ne rappresenta uno degli apici assoluti. Mi riferisco ai Four Quartets di T.S. Elliot e in particolare ai primi dieci versi del primo quartetto, Burnt Norton (traduzione mia dall’inglese):
Il tempo presente e il tempo passato
sono forse presenti nel tempo futuro,
e il tempo futuro è contenuto nel tempo passato.
Se tutto il tempo è eternamente presente
tutto il tempo non è redimibile.
Quel che sarebbe potuto essere è un’astrazione
che rimane come perpetua possibilità
soltanto in un mondo di supposizioni.
Quel che sarebbe potuto essere e quel che è stato
puntano a una fine, che è sempre presente…
Questo mirabile componimento, con la sua struttura ancorata ai parametri del pensiero filosofico greco, ha come protagonista il tempo e il divenire. Leggo e rileggo in continuazione soprattutto gli ultimi due versi di questo incipit (“what might have been and what has been/point to an end, which is always present”) e mi sembra di poterci ritrovare la stessa idea dell’illusorietà del trascorrere del tempo. Come se il Partenone del 432 a.C. non fosse mai esistito, esistendo solo la struttura fondamentale dei significati metafisici di cui si è fatto strumento, questi e solo questi sempre presenti. Con una chiosa finale, tuttavia: perché questo miracolo della attualizzazione delle forme architettoniche, così come di quelle poetiche avvenga, è necessario che vi sia l’essere umano, un ricettore dell’istante che fa convergere e allinea in sé tutto il tempo di ogni cosa.




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