CERCANDO LE CHIAVI - Anna Segre - Il callo osseo che mi fa zoppa, ma senza il quale non camminerei
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Anna Segre |
Questo è l’argomento della mia vita. La brace su cui cuocio le mie bistecche. Uno degli strumenti più acuminati della mia cassetta degli attrezzi di psicoterapeuta. Questo è il passo oltre il bordo che ho avuto la disciplina di osare. Questa è la massima guarigione possibile.
Veniva in camera e diceva: che fai? E io glielo dovevo dire, perché lui era mio padre. Scrivevo, o ascoltavo un disco, o leggevo. Cosa scrivi cosa ascolti cosa leggi. Poteva chiedermelo. E io dovevo dirglielo. Avevo imparato a non sottrarmi perché il tentativo di schermirmi lo faceva incazzare, come si suol dire, ‘stavo morbida’. O pensavo. Solo sul pensiero, inizialmente, riuscivo a sgusciare da quelle maglie di controllo. Però poi, col passare degli anni, anche se mentivo o omettevo su ciò che pensavo, non sfuggivo alle sue attribuzioni: lo sapeva lui cosa pensavo io. Ed erano pensieri bassi, lordi, striscianti, che non mi somigliavano affatto. Erano i suoi, ma lui li attribuiva a me e poi mi picchiava su quelle supposizioni. Si fomentava girando per casa e urlando le accuse o anche borbottandole, per giungere al suo climax e sentirsi, a quel punto, la licenza di insultarmi. E poi di minacciarmi. Voi direte: però non ti picchiava. No. Non ce n’era bisogno. Ero sempre piena di spavento. Non è che ti puoi difendere da qualcosa che non hai pensato, perché è indimostrabile. E nemmeno sfuggi a un padre, se sei una minore. Tanto più se il padre è un borghese rispettato. Andavano al lavoro, lui e la mamma. Che liberazione, quando uscivano. Lei se lo portava via. Era sempre vestita di fiori e profumava, la mamma. Bellissima. Sicuramente guidata dagli angeli, perché fra la totale imprevedibilità di lui e noi, io e mia sorella, c’era sempre un tentativo di lei che lo fiaccava. Ma poi la sua rabbia inestinguibile continuava, cercava scuse, dagli solo una scusa. Il rumore dei nostri passi. Come impugnavo la forchetta. Se avevo lavato i piatti del pranzo. Se ero nella stanza. Se respiravo. Soprattutto il mio respiro lo innervosiva. La prova ineludibile che sì, ero viva e stavo tra i suoi coglioni e mi doveva mantenere e ciò era la più grande ingiustizia mai perpetrata da Dio sulla terra. Non mi picchiava, dicevo. Perché mi bastava sentire la chiave nella toppa per avere paura, perché mi bastava essere guardata da lui, per sentirmi come una preda piccola su un grande prato con un’aquila puntata su di me, mi sentivo nuda, perduta, non potevo sottrarmi. Poi, dopo, nella vita, questo essere nuda di fronte all’altra è stato facile. Mi ero allenata per tutta l’infanzia a essere scrutata, fraintesa, svalutata, sbeffeggiata, disprezzata, aggredita, maltrattata, non amata. E sono campionessa di nudità. Come me la porto io, la nudità, guarda, non so se ne trovi un’altra così. Non pensare con orgoglio, eh! Me la porto ad occhi bassi. Io gli occhi non li alzo mai: la belva si sente sfidata. Però posso esibirla ovunque. Non c’è pubblico che mi umili più di quanto abbia già fatto lui. E non c’è pubblico cui io possa tenere (o temere) più che a lui. Rido delle vostre eventuali offese, perché mio padre, gente, era impareggiabile nell’oltraggiarmi. Poi, dopo, nella vita, ho tenuto bene a fuoco le situazioni in cui non potevo né sottrarmi né lottare, evitandole accuratamente. Significa che non ho sottoscritto alcun contratto, a parte quello di proprietà della mia casa. Che non mi sono fidata della parola di nessuna, perché lo so che poi potresti incazzarti. E io la rabbia dell’altra non la sostengo. E la fine dell’amore. E i ricatti, la blandizie blabla tutte le manfrine dell’abuso. Le so a memoria le manfrine dell’abuso. E poi, cosa c’è di più terribile del sentirsi incaprettata a un sentimento mio? Amare e non potersi separare, sentire questo legame e al contempo, per esempio, che l’altra non ti vuole, o che l’altra ti fraintende, o che l’altra ti chiede cose esose e tu gliele dai, perché la ami. Sai che sono esose, ma gliele dai. O sai che ha torto, ma le dai ragione. O che in nome del tuo amore ti chiede ciò che a te non piace, e tu (io!!!) glielo concedi. Amare veramente, ecco. Questo era il pericolo più grande. E ancora mi chiedo come sia potuto succedere. |
Grandissima potenza . Nadia Chiaverini
RispondiEliminaCrudo vero reale opprimente come un implume sconfitto nella rete come una lumaca schiacciata dalla suola come trovarsi dietro la toppa senza amore e imparare a non essere amata… terribilmente vero.
RispondiEliminaIl testo è sconvolgentemente bello. Come un fiore che resiste alla corolla perdendo i petali. MAViero
È come una corsa uno slalom questo racconto-poesia in mezzo a queste esperienze opprimenti della Sua famiglia.
RispondiEliminaMa a me pare che risulta decisamente vincente di consapevolezza e modo di districarsi! Complimenti vivissimi'