LA POESIA ELEMENTARE - Anna Martinenghi - LA POESIA (elementare) DELLA CURA

 

Anna Martinenghi


“Mia madre se n’è andata il 28 marzo 2023, dopo diciotto anni di malattia. Si chiamava Serenella. Nella carta d’identità era definita “pulitrice”, perché ha sempre pulito i palazzoni, le scale, i cortili e i parcheggi di Treviso. Puliva senza risparmiarsi, poi veniva a prendermi a scuola con il Ciao a miscela che si accendeva pedalando. Alternava una serie di canottiere tutte uguali, come una sorta di divisa. La ricordo sudata e felice”

dal progetto fotografico “Brilla sempre” di Matteo De Mayda


Matteo De Mayda è un fotografo italiano, nato a Treviso nel 1984. Se chiedete a Google, vi apparirà un uomo barbuto con cappello, occhiali e borsa e con molte segnalazioni dei suoi progetti fotografici, che raccontano di natura, ambiente e cause sociali.

L’ultimo suo lavoro: “Una barena intera”, riflessione per immagini sulle fragilità del microclima lagunare veneziano, è stato esposto a Venezia fino al 15 di questo mese: https://www.exibart.com/mostre/una-barena-intera-e-portatile-la-mostra-di-matteo-de-mayda-da-panorama/,

 mostrando lo sguardo allenato di un’anima sensibile, capace di restituire in un’immagine la sua attenzione sul mondo.

Ciò su cui voglio concentrare l’attenzione però è il suo progetto più personale, intitolato: “Brilla sempre”: https://matteodemayda.com/Brilla-Sempre , che vi invito a leggere con me e a rileggere molte altre volte, come esempio pulsante di pura poesia.

Dopo la morte della madre, il fotografo ha deciso di andarla a cercare là dove questa donna – definita dal mondo pulitrice, quanto un’ape operaia – ha svolto per anni il suo lavoro umile, con passione e dignità.


“In questi mesi l’ho cercata in quelle rampe di scale che non si incontrano e negli androni funzionali vuoti. L’ho incontrata nelle ripetizioni dei pianerottoli, uguali ma un po’ diversi su ogni piano, finendo per confondere le nostre linee temporali”.

Nel vuoto della perdita, in questi non luoghi delle nostre vite, Matteo De Mayda ha trovato il senso pieno della vita della madre, nascosto nella cura con cui ha messo sé stessa nel fare e soprattutto nel far diventare bene la fatica del quotidiano:

La confessata fragilità del suo istinto materno si trasformava in voce ferma quando si parlava di lavoro come cura, come definizione di sé. Sarà che siamo veneti e che siamo cresciuti con quest’idea. Quando ho interrotto gli studi mi ha accompagnato a bussare ogni porta per trovare impiego: i pub, il mercato ortofrutticolo, l’autolavaggio, le stagioni a Jesolo. Mi mandava avanti da solo, ma era dall'altra parte della strada a controllare, dall'altra parte del telefono a rispondere. L’attitudine al lavoro che mi ha lasciato è un’eredità non scritta nel testamento.


Immagini e parole divengono, come afferma lo stesso autore: terapia di gruppo, dove al posto della terapeuta c’erano gli amministratori di condominio e al posto dei pazienti gli inquilini, con un ricordo generoso su di lei.

Questo progetto brilla, brilla sempre davvero e lo fa per ciascuno di noi, ricordandoci che la cura che mettiamo in ciò che facciamo lascia un segno tangibile al di là del tempo e diviene poesia elementare, quanto fondamentale delle nostre esistenze, che annoda fili e costruisce legami:

Non avrei potuto presentarmi nei palazzoni con la camera al collo senza permesso, così per ogni luogo ho cercato un punto di contatto: un amministratore, una vecchia amica, un ex compagno di scuola che abitassero lì. Ho fatto una lista e, come in un pellegrinaggio tra luoghi sacri, lì ho visitati tutti. Quando ho esaurito le mie risorse, ho chiesto aiuto alle zie e ci siamo resi conto di conoscere quasi esclusivamente i condomini dove lavorava in nero, perché sono quelli che, nel momento della malattia, non erano coperti dalla previdenza sociale. E anche lì ho riconosciuto un po’ del nostro essere veneti, con i pianerottoli igienizzati e la polvere sotto il tappeto, dietro la porta blindata.




Guardo e riguardo queste immagini, scarne solo in apparenza, che mi commuovono nel profondo, rendendomi conto che la poesia non è mai una questione individuale, ma un percorso sempre plurale, collettivo: quello che tradizionalmente si instaura fra poeta e lettore, ma anche quello che si accende fra le persone nella quotidianità dei gesti e che diventa, come in questo caso, eredità di vita.

Prima di essere ricoverata per l’ultima volta aveva cucinato e surgelato piatti fino a riempire tutti gli scompartimenti del freezer di casa sua, sapendo che avrei dovuto passarci molto tempo da solo. Erano colmi di ragù in bicchieri di plastica, vaschette di gelato, lasagne, minestrone, bistecche e funghi, tantissimi funghi da Possagno. Dopo la sua morte ho centellinato i piatti che mi aveva preparato per farli durare il più a lungo possibile, sono andato avanti per diversi mesi.
Queste fotografie sono per me quel cibo, utili ad immobilizzare quello spazio e quel tempo che hanno definito le nostre vite, per continuare a nutrirmene.

Mi auguro e vi auguro di trovare nelle vostre esistenze il filo di una poesia così presente, così viva, ancor prima di essere fotografata, ancor prima di essere scritta.

 

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Matteo de Mayda (1984, Treviso, Italia) è un fotografo con base a Venezia e la sua ricerca visiva è focalizzata su cause sociali e ambientali. Ha esposto il suo lavoro presso la Biennale Architettura di Venezia, MUFOCO, London Design Museum e Triennale Milano. Nel 2019 pubblica “Era Mare”, un libro sul fenomeno dell’acqua alta a Venezia. Nel 2020 viene selezionato da ARTRIBUNE come miglior giovane fotografo italiano dell’anno. Nel 2021 è stato uno dei FUTURES talent selezionati da CAMERA e ha vinto l’Italian Sustainability Photo Award (ISPA) grant con il suo progetto sulla tempesta Vaia. Nel 2022 vince il British Journal of Photography International Award. Le sue immagini sono state pubblicate su The New York Times, Financial Times Magazine, Internazionale, Zeit, 6Mois, National Geographic e Vogue.

Progetto fotografico “Brilla sempre”: https://matteodemayda.com/Brilla-Sempre


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