FRAGMENTA - Deborah Prestileo - Il mantello di stelle sopra la coscienza. Su Alejandra Pizarnik

 

Deborah Prestileo

Della notte so poco

ma di me la notte sembra sapere

e più ancora, mi assiste come mi amasse,

mi ammanta di stelle la coscienza.

 

Alejandra Pizarnik nasce nel 1936 a Buenos Aires, figlia di immigrati ebrei russi. Fin dall’inizio della sua esistenza porta con sé una condizione di estraneità – alla lingua, alla cultura, alla vita stessa. Cresce bilingue – parla lo spagnolo e un ebraico frammentario – in bilico costante tra l’immutabilità della parola e il movimento instabile della psiche. Durante la sua esistenza — seppur breve: si toglie la vita nel 1972, a 36 anni, ingoiando una massiccia dose di barbiturici — scrive per trattenere ciò che continuamente si dissolve. Sé stessa, prima di tutto. Tanto che il gesto non fu improvviso né inatteso: la sua vita, la sua scrittura e i suoi diari erano già da tempo abitati da un dolore acuto, lucidamente analizzato e restituito in versi di disarmante ferocia. Scrive fino all’ultimo, persino sul letto di morte, lasciando questi versi come testamento finale: «non voglio andare / nulla più / che fino al fondo».

Nei suoi versi non c’è l’abbondanza, ma la povertà. Un radicato bisogno di togliere, scavare, ridurre la parola all’osso, come se volesse testare la capacità di sopravvivere a sé stessa. Il dolore che attraversa le sue poesie non è gridato ma sottile, e la notte ne diventa il luogo privilegiato. Non la notte romantica dei sogni né quella inquietante degli incubi. Ma una che non chiede spiegazioni e che non esige prestazioni. Una intelligente e cosciente, quasi materna, che sa e assiste. Perché ci vuole nudi, come processo e prodotto dello spogliarsi.

Chi legge Alejandra Pizarnik entra in un territorio dove i confini sono mobili. La sua è  una poesia che si avvicina al margine, che ne scruta con diffidenza il bordo e che poi ci cammina sopra, senza mai abbandonare del tutto il controllo del proprio movimento. L’identità dell’io lirico è sempre incerta, mutevole, scissa. Non è un soggetto compatto ma una presenza che vacilla e si frantuma, chiedendo di essere detta senza potersi dire davvero. Eppure, la poesia insiste, si ostina. Del resto, è la sua unica forma di resistenza. Nei suoi diari e nei suoi scritti in prosa, Alejandra torna spesso sull’idea che la scrittura sia un atto di fedeltà a una parte di sé che non può sopravvivere nel mondo del reale. E la poesia è il luogo dove quella parte fragile e bambina può finalmente prendere una boccata d’aria. Allora il linguaggio, per la poetessa argentina, non è mai neutro. Anzi, è un campo minato: qualcosa che può salvare o uccidere. In molte sue poesie, il desiderio di parola si accompagna a quello di sparizione. Del resto, scrivere è il modo migliore per sparire meglio. Perché si sparisce lasciando traccia della propria scomparsa.

 

Io non so di uccelli

non conosco la storia del fuoco.

Però credo che la mia solitudine dovrebbe avere le ali.

 

Alejandra abita il non sapere come forma di vertigine che precede e segue ogni parola. E anche qui, come peraltro anche nella poesia iniziale, emerge un gesto lieve, una bellezza residua: la solitudine che si immagina con le ali, che quasi si trasforma in creatura volatile. Perché alla fine non si redime, ma si eleva per volare.

La poesia, nella visione del mondo disincantata della Pizarnik, è una richiesta di ascolto, che si manifesta con l’estrema cura verso la forma e la musicalità del testo: anche qui non c’è mai abbandono, neppure nella vertigine, e le parole sono ganci per tenersi. Anche quando parla della morte, lo fa con una delicatezza che tocca il sacro. È l’inferno in musica, canto ininterrotto della fine.

Leggere Alejandra significa esporsi a una verità non rassicurante, ma necessaria. Significa accettare di guardare dentro il buio e scoprire che non è vuoto, ma pieno di nomi, di segni, di presenze. Significa riconoscere che la notte, forse, sa più di noi di quanto non siamo disposti ad ammettere. E che, proprio in quel sapere silenzioso, potremmo trovare — se non una risposta — almeno un gesto lieve. Un mantello di stelle sopra la coscienza.


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