POETICO ACCESSORIO - Claudia Olivero su "Cronache dalle rovine" di Emiliano Cribari

 

Claudia Olivero

E in un attimo è tutto presente:

non morde mi accarezza

si rivela e svanisce

ha molti nomi

alcuni luoghi

ha tutte le mie età (tranne una)

mi vuole immobile

inerme

non ammette intrusioni

càpita ora finché morte non ci separi

(gli alberi parlano voci che sembrano umane)

io crepo di sete

di calma

d’amore

ho però tutto il resto

è così estate

che l’inverno sfiora i frutti del bosco[1]

 

Le Cronache dalle rovine (peQuod 2023) di Emiliano Cribari sono esattamente ciò che fin dal titolo mi aspettavo: essenziali, vere, calde da morire (anche le volte in cui è inverno). D’altronde un cercatore di luoghi, uomo di strade polverose e terrigne, sa come si parte per un viaggio ignoto: zaino leggero, poche parole. Pancia vuota (il logorio allo stomaco che scompare a non pensarci), viaggia con la fierezza delle ginocchia sbucciate, pensieri diretti e necessari. Nulla di più può essere tenuto, nulla di diverso può essere creato. E silenzio, un silenzio che a volte non si può neanche raccontare. Quanto può pesare uno zaino pieno di silenzio? A qualcuno tanto, ne sono certa, ma non a Cribari: nella sua poesia è quasi protagonista assoluto, assieme alla malinconia – parola chiave della poetica del cercare, del camminare.

La bellezza di questo libro sta nel suo inerpicarsi fino alla cima per poi scendere dolcemente a sfiorare il mare. È un saliscendi irrefrenabile la malinconia e la ricerca di identità di chi è indissolubilmente legato ad ambienti così tanto diversi: il mare della Calabria, delle origini, e l’Appennino della vita. Luoghi che si rincorrono tra le pagine del libro, per ricongiungersi in un viscerale paesaggio sardo, quello dell’Argentiera, che li accoglie entrambi. Perché il poeta lo sa che il futuro delle cose è celato già nella loro origine, come ci suggerisce anche Christian Bobin, autore amato dallo stesso Cribari.

 

Mollo il sentiero e m’arrampico su frane, dove la terra si sbriciola, franta. È granella di pietre che tendono al mare. Oltre il mio corpo, il dirupo.

Scrissi una volta: non ispira il mare bello ma il mare profondo.

Ammaro gli occhi ma è la terra a volermi. Scivolo, schianto le mani sulle rocce, m’aggrappo. Risalgo.

[…]

Silenzio: precipita un silenzio secolare che è la fine dell’umano.

È una gioia randagia, rapace: sa che tutto all’improvviso, un giorno, tace.

Valle: ora il paese sa di brace.

Vorrei essere un inverno e scivolare fra le case. Ascoltare. Essere un giorno qualunque: il più tenero, il più vuoto. Udire i paesi crepitare, il richiamo del mare.[2].

 

Nei luoghi che va esplorando, Cribari cerca in realtà memorie: perché i ricordi hanno origine e casa nei luoghi. E i luoghi sono madri dei ricordi. In questo libro sono proprio i Luoghi e la Memoria a cercarsi e ritrovarsi. Il luogo-madre di Cribari è un intreccio di rami, pietre e terra, che si fanno nido e in cui le uova dei ricordi possono schiudersi dolcemente, crescere nei sussurri della natura e, infine, prendere il volo. L’autore stesso parla sottovoce, si muove leggero, con il corpo e con le parole, quasi sorvolando quella vita vissuta che va cercando. La osserva dall’alto, la segue a distanza, fino a quando il momento giusto arriva e allora si lancia in picchiata, predatore gentile, afferra un ricordo, ma senza stritolarlo, senza ucciderlo: soltanto per riportarlo al proprio posto (ora taccio perché voglio osservarli[3] e imparare/più la vita si stacca da terra/più la voce dei cieli diventa chiara): in un cortile estivo, dietro a un cancello chiuso (C’è un cancello, fuori dalla casa dei miei nonni, in Calabria, a Diamante, che è l’immagine esatta del dopo, la forma dell’istante verso cui non si torna neanche un po’), sulla sabbia calda di sole.

 

tornerà l’inverno sui sentieri incompresi

e in un tumulto li abbevererà

torneranno le albe nere

i silenzi degli uccelli

nessuno avrà paura né malinconia

torneranno le parole

Emiliano

una a una

diverranno altro tempo che passa

scriverai mare una riga sotto

perché infranga l’immenso e consoli

perché càpita di non capire

d’essere pronti a salvarsi

tornerà l’inverno

il vento brado che strattona

un canto barbaro di bestia di poeta

fra gli alberi una lenta litania

tornerà a chiamarsi inizio

quest’agonia[4]

 

**

aceri accolgono l’alba

il vento

l’eco di esplosioni nelle cave lontane

sono qui da più di quarant’anni

quasi immobile

quasi inquieto

quasi

quasi alleato delle parole

sono seduto sui gradini di un casa abbandonata:

la mia è una costanza innocente

istintiva

che m’ammala

da qui ho sentito un fico

forse Dio

l’ala d’un codirosso inabissarsi

precipitare:

nel silenzio delle case scheletrite

naviga ovunque il mare[5]

 

**

migrano gemiti d’acqua miracolosa

come di un pianto mozzato

il mio

rimasto fermo davanti a una maestà

vago per boschi che mi sembrano tutti uguali

rocce foglie accartocciate strade rotte

ripassate dai passi di bestie affamate indolenti

mute

bestie vocianti gli umani

ai bambini bisogna insegnare la malinconia

la languida malinconia di questi boschi

dei ruderi e delle rovine

dell’acqua che erompe come mistica visione

bisogna insegnare ai bambini che tutto si perde

ma non la speranza

non questa languida questa languida

malinconia[6]

 

Infine, non si può non accennare al costante faccia a faccia con la poesia, in questo libro: ovviamente non soltanto perché di una silloge si tratta, ma proprio per la frequenza e la necessità con cui Cribari ne parla, chiamandola sempre per nome. Definirei quindi la parola poetica come la lingua mistica con cui l’autore si rapporta al suo passato, per andare inevitabilmente in cerca del suo futuro.

 

[...]

questa non è una poesia ma un sentiero:

devo farlo anche se piove, di notte, da solo

devo farlo anche se quest’accidia, mentalmente, uccide

non siamo noi quelli che volano

che prendono il largo senza orpelli nel mare

noi siamo quelli che gridano

che sterminano

che sperano strisciando

per caso

di non dover in un soffio

sparire[7]


**

[…]

Muto è il paesaggio immutabile ai ricordi.

Qui ho provato la poesia, trent’anni fa. L’ho trovata. Era una gioia presa a tempo, per tempo, confinata; una luce fortissima, spezzata. La vita senz’offesa. Da ragazzo le montagne le scrivevo; ora le salgo a passo ruvido, blasfemo.[8]



______________________

Emiliano Cribari è nato a Firenze nel 1977. Fotografo, poeta, nel 2019, dopo essere diventato Guida Ambientale Escursionistica, ha creato Il Cammino 23, realtà con cui ha dato vita al progetto delle camminate letterarie. Ha scritto la raccolta di poesie La cura degli istanti (Transeuropa, 2019), La vita minima (AnimaMundi, 2020), La cura della pioggia (Ediciclo, 2023) e Soltanto d'estate.






[1]               Cronache dalle rovine, Emiliano Cribari, peQuod 2023, p. 45

[2]               Ibid. p. 66-67

[3]               I cinghiali

[4]               Ibid. p. 54

[5]               Ibid. p. 59

[6]           Ibid. p. 53

[7]               Ibid. p. 71

[8]               Ibid, p. 66


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