LE MONOGRAFIE DI FINESTRE - CINQUE FINESTRE SULLA POESIA - Barbara Giuliani (a cura di D. Bellomusto, V. Bruno, S. Giammillaro, D. La Mantia, M. Valenti)

 

Barbara Giuliani


Inizia un nuovo progetto di redazione: "Cinque Finestre sulla poesia", una presentazione di cinque testi dello stesso autore/autrice commentati da cinque redattori del nostro blog. Inizia alla grande, presentando cinque testi di Barbara Giuliani commentati dai cinque redattori del direttivo di Finestre. Buona poesia! 


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Non esiste una nota a margine.

 

questo è il margine:

una operazione geometrica

in cui calcoliamo l’aria di un cilindro

trenta per cinque.

 

c’è un uomo in un sito on line

che cerca di comprare uno spargifoglie e

non ha un giardino.

 

non sappiamo dove siamo, forse

in un paese a bassa densità demografica,

con un tasso di natalità allo zerovirgolatrepercento.

 

quando sei in un cilindro

il mondo diventa chiave e porta,

tessera sanitaria e cup,

biglietto per lo stadio e curva,

tutto nello stesso punto idrogeografico.

 

le stagioni si confondono,

si prestano le temperature,

si scambiano favori idraulici e

non hai paura che un raccolto possa andare a male.

 

il sole e la luna sono:

onnipresenti;

vengono vessati e idolatrati,

simboli di una religione extracorporea.

 

il giorno e la notte sono:

miscelati;

abbiamo creato un grigio perenne,

unica ambientazione per vivere o morire,

non ci si reincarna.

(da Materia Madre, collana “Manufatti poetici”, Zacinto edizioni, 2025)

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Barbara Giuliani scombina, disordina, capovolge e mescola le carte e le fa sudare. Trasuda la vita e insieme alla vita le conseguenze che porta con sé.

Barbara alla vita seria risponde con smorfie di bambina e saggezza da strega. La lingua si scioglie, si corrompe la parola e diventa suono, si eleva il suono e non rinuncia al senso. La poesia di Barbara è acqua che si fa neve, neve che si scioglie al sole.

È ghiaccio bollente, ossimoro spiegato ai bambini, affinché sia trasparente la realtà in tutta la sua intrinseca follia.

Strappa il cielo di carta e ci guarda nudi, ma non dall'alto, lei si spoglia con noi e la fragilità non copre la vergogna del nostro non sapere più chi siamo e dove siamo.

 

non sappiamo dove siamo

 

Figli di un mondo che non conosce stagioni viviamo stretti nella circonferenza di un cilindro che non concede margine

 

c’è un uomo in un sito on line

che cerca di comprare uno spargifoglie e

non ha un giardino.

  

Abbiamo perso l'orizzonte, confuso i punti cardinali. Persi nel mondo piccolo delle nostre incertezze camminiamo con passo claudicante e sguardo cieco.

Il sole e la luna idolatrati da una religione extracorporea non li sentiamo più. Il corpo è intorpidito, forse anestetizzato.

La poesia è un urlo di protesta, non certo un capriccio infantile, neppure una sterile polemica. È un assertivo esercizio di attenzione, un deciso invito a una  visione lucida e precisa che non rinuncia ai dati

 

non sappiamo dove siamo, forse

in un paese a bassa densità demografica,

con un tasso di natalità allo zerovirgolatrepercento.

 

Eppure Barbara ai dati sembra preferire i dadi da lanciare per sfidarci a capovolgere la prospettiva, ribaltare la realtà, guardarla in faccia, accorgerci che il re è nudo, non ci sono vestiti nuovi da indossare, solo gli occhi possono contenere nuovi sguardi e generare nuove visioni.

Doris Bellomusto

 

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il baccalà di madonna verona

“la mia vista assolata

assolta

in questa piazza di collina marina,

stento a respirare, trattenere

la cartolina, i grilli muoiono

su arbusti incendiati, a tredici passi

da me, un uccelletto smagrito

tenta il volo guardando a nord.

la direzione presa, intra,

clave o bestia, ammalami

in questa giornata, torrido il buio

e vedremo insieme per la prima volta

come realizzare un triangolo isoscele e

non sapere cosa farne.

ci guardiamo la punta

dei piedi per non demolire

l’ombra dell’altro.

chiudi le orecchie, atterriamo

nel dirupo di carne domestica.

mondo cane

jacobina bienebol

tu non sai nemmeno chi sia

lascia condurti in questo vicolo desolato,

di umore, un punto geografico trasformato

in essere umano, il capovolgimento di un senso

frullando ingredienti a caso.

vorrei sole cuore amore,

baccalà, in fondo

mi manca il baccalà, non

vorrei altro che baccalà,

baccalà

baccalà

baccalà

baccalà

baccalà

pagine intere di baccalà,

stramilioni di quintali di baccalà.

nel nostro frigo ci sono ventotto scatole di sale marino grosso.

non nevicherà sotto il balcone, non andremo a verona, non avremo un pezzo da cinque euro nel portafoglio, e spezzeremo una caramella in due. dimenticheremo il baccalà, così come abbiamo perdonato il ferro da stiro acceso per tre giorni. madonna quanto mi manchi.”

(da Bianca, Neo Edizioni, 2022)


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Adoro chi indossa abiti stretti, le tute, le mute di due taglie inferiori. Amo la sfida dell’infilare le mani nelle maniche al contrario, o la testa dalla parte delle caviglie. Impazzisco nell’impossibile tentativo di indossare la pelle di certi poeti straordinari. Mi ricordano alcuni esemplari di pesce palla (ne avevo uno una volta, si chiamava Gufo): in un attimo, da ocarina diventano mappamondo e non riesci a raccontarne né la forma, né "la cartolina" che stanno osservando.

Certi poeti straordinari ci portano in una dimensione dove la realtà si scioglie, evaporando come acqua salata sotto un sole impietoso.

Ecco, Barbara Giuliani è uno di questi, è un pesce palla.

Il cuore di questa poesia è un paesaggio mentale, la “piazza di collina marina”, un luogo ibrido, un ossimoro visivo che crea uno spaesamento topografico, una geografia dell’impossibile in cui i luoghi diventano stati d’animo, gli oggetti divagano in simboli: la collina che si fa mare, la terra che ondeggia come se la stabilità stessa fosse un miraggio.

Sinestetico il verso in apertura “La mia vista assolata / assolta”, uno slittamento semantico che contiene in sé un senso di liberazione e di colpa, una vista bruciata dal sole ed un sentire in qualche modo colpevole, quasi la luce fosse una macchia da condonare.

La logica del reale implode. Il senso è miraggio sulla sabbia infuocata.

In questo spazio la voce poetica fatica a respirare nel tentativo di trattenere un ricordo destinato a evaporare - “la cartolina”, simbolo della memoria idealizzata e ormai lontana.

A soli tredici passi di distanza, si realizza un’agonia lieve, una canicola mortifera: i grilli che muoiono su arbusti incendiati, un uccelletto smagrito che tenta il volo verso nord, verso il freddo, a sfuggire da un buio torrido e opprimente. Il volo tentato è desiderio esausto, senza esito. Ma non c’è ritorno: si va “intra, clave o bestia”.

C’è la supplica: “ammalami / in questa giornata”, richiesta paradossale di un contagio che forse è un modo per sentirsi ancora vivi. E una spiazzante, disarmante, promessa: “vedremo insieme per la prima volta / come realizzare un triangolo isoscele / e non sapere cosa farne”: la costruzione di un perfetto equilibrio che però si rivela inutile, sterile.

L’incomunicabilità che emerge nel tentativo di evitare il crollo: “ci guardiamo la punta / dei piedi per non demolire / l’ombra dell’altro”. L’ombra, proiezione dell’essere, diventa sacra, intoccabile - c’è qui un rispetto doloroso, un amore che si fa trattenuto, come chi sa che un passo in più distruggerebbe tutto.

La febbre che sembra portare al delirio, “il capovolgimento di un senso/ frullando ingredienti a caso” è in realtà mosaico della memoria, immagini dal personale pozzo cui ogni poeta attinge.

Ed ecco che compare un’immagine da quel fondo: “mondo cane/jacobina bienebol”, che “tu non sai nemmeno chi sia” e infatti ho dovuto ben indagare, curiosa, per scoprirlo. Adesso so chi è, e pure il povero cane, ma non lo rivelo, per non spostare troppo l’attenzione da quel “vicolo desolato/ di umore” - personificazione di stati d’animo come topografie deformate. È la carne del quotidiano che si fa dirupo, abisso domestico, dove si cade senza rumore.

E poi, finalmente, a ribaltare le banali tre parole, vorrei sole cuore amore, ecco il baccalà.

Non/vorrei altro che baccalà: la parola si trasforma in ossessione, mantra, grido. Da alimento povero a simbolo del desiderio insaziabile e assurdo. Il climax ripetitivo è una liturgia dell’assenza, quasi una forma di esorcismo, una preghiera.

Il baccalà, è ciò che manca senza ragione, ciò che si desidera al di là del senso, un’insaziabile fame atavica, esistenziale, “pagine intere di baccalà/stramilioni di quintali di baccalà”, un’infinità.

E subito dopo, il sale. “Nel nostro frigo ci sono ventotto scatole di sale marino grosso”, il contrario del baccalà, che si desidera ma non c’è. Il sale e ciò che resta, è l’accumulo di un’attesa inutile.

Infine, la resa dolceamara: “non nevicherà sotto il balcone, non andremo a verona, non avremo un pezzo da cinque euro nel portafoglio”. No, non andremo a Verona, a vedere Madonna Verona.

È il crollo delle piccole aspettative, la rinuncia all’ordinario come se fosse già troppo ambizioso. Mi ricorda il Julio Cortazar di “e so molto bene che non ci sarai […]/ neppure nel gesto di scegliere il menù”, o, all’opposto, Andres Neuman, “mi piacciono tutti i propositi, dichiarati e segreti, che disattendiamo insieme. È questo che preferisco della vita a due. La meraviglia aperta sull’altrove. Le cose che non facciamo."

Un’ultima possibilità di condivisione: “spezzeremo una caramella in due”, gesto minimo, ma colmo di intimità.

La chiusa è struggente ironia: “dimenticheremo il baccalà, così come abbiamo perdonato il ferro da stiro acceso per tre giorni. madonna quanto mi manchi.”

Barbara Giuliani crea un universo in cui i simboli più semplici (il baccalà, la caramella, il balcone, il frigo) diventano porte per abissi interiori. È un testo che non si lascia spiegare del tutto, ma si lascia abitare: come una cartolina ingiallita, come un ricordo che non smette di mancare. Qui tutto si condensa: oblio e perdono, quotidiano e straordinario, assenza e amore. Il “ferro da stiro” è dettaglio comico che diviene subito simbolico: la dimenticanza di qualcosa di pericoloso, perdonata perché l’amore — o la mancanza — sa assolvere tutto. Forse.

Viola Bruno



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da cartilagine

 

– scrivi un verso erotico –

spalanca la mia fica, per vedere cosa sia rimasto di me,
oltre le piccole scorie degli uomini passati sul mio ventre.
lecca i margini del mio scrivere per rendere potabile
la carne che corre dentro il mio essere mostrato
al mondo nella forma più comune a cui siamo abituati:
un essere umano.

– il cameraman si è bendato gli occhi –

il rumore è diventato un suono continuo e sottile,
a settantanove metri dalla mia postazione di vita.
una trota sta morendo in un fiume a
ottocentocinquantacinque metri di altitudine.
la signora elena è arrivata al cimitero
sulla tomba di suo marito.

– il cameraman non riesce a inquadrare
nitidamente la lapide –

lo chiameremo mario, per comodità,
a noi non interessa, ma sembra doveroso saperlo.
a syracuse sono le undici di mattina del diciotto luglio,
non specificheremo l’anno, per avere queste informazioni
riproponibili ogni volta in cui ne avremo bisogno.
ci sono cose che non hanno data di scadenza, tu
qui vuoi degli esempi:
l’amore di un criceto per la sua compagna.
una zolla di terra dell’irpinia e
un cornicione di un tempio buddista.

l’insalata mista va condita con l’aceto,
non si discute.

(Da Materia madre (versione minima), collana “Manufatti poetici”, Zacinto edizioni, 2025). 


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“L'altitudine è la distanza verticale di un oggetto dal livello del mare”, definisce un Wikipedia qualunque, ma 850 metri è l’altitudine dello Slieve Do

nard che lo rende il monte più alto dell'Irlanda del Nord. Dietro una cifra può esserci una montagna maestosa che risponde al perché più intimo, all’esattezza del numero scelto. Ma dopo la precisione, c’è il cedere delle falangi nel fiume, c’è una trota distante 79 metri “dalla mia postazione vita”. Qual è, insomma, la distanza di sicurezza per noi realmente “sicura”? Qual è l’esattezza di un uomo perso tra gli uomini? Ci identifichiamo in base all’altitudine, ma a distanza un qualsiasi numero va bene se filtrato dall’obiettivo di un cameramen, che “si è bendato gli occhi”. Cosa non vede? O cosa non vuole vedere? O cosa vede troppo

Così il 79 non ha un significato prestabilito, ma può assumere una valenza semantica solo “nostra” o solo “sua”, un po’ ripercorrendo la diatriba tra significante e significato alla Zanzotto maniera ne “La Beltà”.

Un numero qualunque diventa quel numero.

Un uomo qualunque diventa quell’uomo.

Come il mario chiamato per comodità e la signora elena arrivata al cimitero.

C’è in questi versi un’ironica denuncia dissacrante alla società tutta che non si fa accorgere. C’è l’amaro sotteso nel peso di tutte le “informazioni/ riproponibili ogni volta in cui ne avremo bisogno”. Ecco, bisogno.

Una spasmodica ricerca del sapere che procede in misura direttamente proporzionale al delirio di ogni identità, nella confusione di non riuscire ad intercettare, a percepire ciò che conta e ciò per cui vale la pena di avere un nome o essere riconoscibili. La Giuliani fonda una nuova poetica dello sguardo, che mutuando dall’Italo Calvino di Palomar che «vede la specie umana nell’era dei grandi numeri che s’estende in una folla livellata ma pur sempre fatta di individualità distinte come questo mare di granelli di sabbia che sommerge la superficie del mondo», approda oltre “l’occhio interno della mente” presente in Ora serrata retinae ) di Valerio Magrelli per assestarsi tra “il cameraman non riesce a inquadrare nitidamente la lapide”  e una syracuse alle undici del mattino di un 18 luglio qualunque. 

Proprio lì nel bilico, nell’oscillazione tra cecità e occhio, tra la luce e l’oscurità, dove tutto è ovvio anche il sapore dell’aceto sull’insalata mista, la soluzione viene da dentro, dall’incontestabilità di una “materia madre” che affonda dove si spalanca la fica “per vedere cosa sia rimasto di me”. L’unico obiettivo che funziona, insomma, è, o si consiglia essere l’introspezione viscerale del sé, come primo seme passibile di vita o vendetta. All’interno di una serie ben orchestrata di diapositive, si innesta ogni puntuale scelta allegorica e zoomata dalla Giuliani e in ogni sua scelta risiede la conferma della potenza geniale ed originale della sua voce poetica, anche se lei non sarà d’accordo con tale chiusa “ossequiosa” e noi tutti siamo solo dei figli di prosa (cit.).

Stefania Giammillaro


1. “Dialoghi mediterranei” - Riflettere riflettersi: la poetica dello sguardo in Palomar e in Ora Serrata Retinae a cura di Clarissa Arvizzigno in www.istitutoeuroarabo.it


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Zigomo

Ci siamo separati con un aspetta. 


Le nostre armature migliori le abbiamo lasciate morire nei campi profughi privi di acqua potabile.


Abbiamo perso ogni sovrastruttura mobile delle nostre pelli colorate da qualcuno in maniera diversa per non confonderci tra la folla.  


Le cicatrici sul nostro viso sono due piccole feritoie in cui costruiamo i nostri ipotetici castelli di niente.  


È tutto smisuratamente veloce e urticante che le protezioni ai lati delle strade sono per dirigerci in un’unica direzione concordata.


Tutti i giorni diventano possibili fallimenti e possibili ricostruzioni. 


Hanno soppresso la linea dell’autobus sulla riviera. Volevo venirti a scoprire, ma non ho trovato le giuste gambe per farlo.  


Ho contenuto il mio ciao tra la gola e le labbra, stringendo accidentalmente un uovo fresco tra le mani. 


Ogni possibilità che ci viene data per alzarci dal letto la mattina è un miracolo laico.


Ogni dunque che professiamo nel nostro credo è una scelta mirata e oculata priva di diottrie. 


In questo momento storico siamo mille fiori di gelsomino di Grasse e dodici rose di maggio di Grasse, letto sbadatamente a pagina sessantasette di una rivista di moda. 


Ho cercato di chiamarti invano, sapendo che hai cambiato casa, ma speravo qualcuno rispondesse al tuo posto.  


Sai, per parlare delle piogge di sabbia, per chiederti quale sia la capitale della Siria, per ricordare insieme il giorno di compleanno di zia Anna, anche solo per aiutarmi con il cinque verticale del cruciverba misto che mi tiene in bilico da una settimana.


Sai, per rimanere silenzio, quello pieno fra le mura domestiche, quello in macchina quando guidi da ritorno dopo il lavoro, quello quando non hai studiato e le tabelline ti accorgi sono tutte uguali, tranne quella del sette.


Sai, per ridere un po’, come a essere sbronzi alle quattro di pomeriggio avendo bevuto solo ginger bianco. 


Siamo sgorgati tagliandoci gli zigomi con rasoi destrutturati, per far cadere i nostri occhi in un altro mondo.  Torna ad accarezzarmi mentre la sera decide di morire. Per paura, per noia, per caso, per tutte le volte che hai comprato una ricarica telefonica.

Permesso.

(da L’aria rancida, Gli Elefanti ed., 2018)


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Che cos'è l'aria rancida che circola nel libro omonimo di Barbara Giuliani, uscito per Gli elefanti edizioni nel 2018? Federica Maria D'Amato mostra, nella sua prefazione, come il mondo della poeta abruzzese sia "affollato da oggetti inutili - le nostre vite -, e che tra l’io poetante e il tu poetato ci sia tutto il pattume del mondo, non inteso come scarto, ma come soffocante eppure ormai necessario testimone del fatto che (forse) siamo ancora umani". L'amore se ce ne accorgiamo, se non facciamo finta: ecco perché la prefatrice sottolinea che "umani si diventa soprattutto accettando di esserlo: mangiare le crepes ai carciofi, aver voglia di parmigiana, scopare, fare la spesa, soffrire d’insonnia, ascoltare la lavatrice fare il suo giro, il Ferragosto, la crema solare scaduta, la prostituta morta investita sul ciglio della strada…"Ecco, un umanissimo viaggio negli inferi della quotidianità, sentita insieme come luogo di protezione e come carcere, come soffocamento e come calore, come massificazione e come luce. 

Partiamo da una certezza. La scrittura della Giuliani è un atto politico. In un modo simile, eppure totalmente diverso, a quello della Valduga, quando rovescia i ruoli stereotipati nel sesso e comincia a dare ordini al maschio, quando riempie la scrittura di imperativi. Qui la poeta abruzzese ripudia la consuetudine della scrittura, la violenta, la oltraggia. La poesia è rivoluzione. 

Ma non nel senso che siamo abituati a pensarla. 

Nel momento in cui è più alternativa, l'artista fa, però, anche una operazione 

"conservativa" alla Saba, quando il triestino ammette: "Amai trite parole che non uno usava. Mi incantó la rima fiore amore, la più antica, difficile del mondo". Alle parole del poeta del Canzoniere provate a sostituire i gesti lievi e pesanti della vita quotidiana tipici del dettato della Giuliani  e provate a farne le fondamenta di una poesia. L'orrore non è più distinguibile, ma proprio in quell'orrore è possibile trovare una luce, un guizzo in pozze d'acquamorta, come pensava Montale ne L'anguilla. La salvezza, se si dà, verrà da giù, dal basso. 

La Giuliani svela la nostra condizione di automi e servi, creando un sistema lessicale e sintattico alternativo, abitando "zanzottianamente" un altro universo, in cui l'umanità bestemmiata e regredita possa nuovamente avere senso. Possa amare. Poiein. Di immagini, suoni, gesti. Da demiurga vera. 

In Zigomo, il testo che apre questa raccolta, prevalgono sin dall'inizio verbi che indicano una perdita, una sconfitta, un esaurirsi (ci siamo separati,  le abbiamo lasciate morire, abbiamo perso). Il mondo quotidiano brilla per fallimento, prigionia ed orrore (cicatrici, piccole feritoie, castelli di niente, tutto smisuratamente veloce e urticante) fino a manifestare la nostra natura di sonnambuli, incapaci di luce (Per paura, per noia, per caso, per tutte le volte che hai comprato una ricarica telefonica), di una umanità ormai robotizzata (dirigerci in un’unica direzione concordata, non aver trovato le giuste gambe per trovarsi). In un mondo sbarbariano, in cui l'anima non sa più distinguere "godere e soffrire", ma sente solo l'immensa stanchezza che la attraversa, nei gesti automatici (stringendo accidentalmente un uovo fresco tra le mani) nella solitudine delle scelte, svuotate di affettività (Ho cercato di chiamarti invano, sapendo che hai cambiato casa, ma speravo qualcuno rispondesse al tuo posto). In questa condizione, privato e pubblico diventano addirittura la stessa cosa (per parlare delle piogge di sabbia, per chiederti quale sia la capitale della Siria, per ricordare insieme il giorno di compleanno di zia Anna). 

L'anafora del “Sai sposta l'attenzione su una colloquialità svuotata di amore, ormai ridotta, come nei già citati Sbarbaro e Montale a dialogo tra "sbronzi alle quattro di pomeriggio avendo bevuto solo ginger bianco". Cosa potrà salvarci se non una morte ed una rinascita, come nella "gronda" di Fortini, in cui "tutto precipita irreparabilmente" al poggiarsi di una rondine. La Giuliani racconta come "siamo sgorgati tagliandoci gli zigomi con rasoi destrutturati, per far cadere i nostri occhi in un altro mondo". Un altro mondo. Dalla morte, rinascere. 

Perché, se "tutti i giorni diventano possibili fallimenti e possibili ricostruzioni" dobbiamo forse morire per sempre, come storia, come tradizione, come metrica, come lessico. 

Una palingenesi. Quasi esoterica. Per tornare a vivere ed amare.

David La Mantia


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dentroinprima


In passo ti sfioro. Cerco. Ferma su questo giro. Trovo un punto (.) su cui poggiare le mani. Conserte. Sdraiata, pensando a parole da dirti. Ed allora.

Una mamma allatta suo figlio sulla destra. Con la mano sinistra si tocca i capelli.


Tu senti.


Illusione.


Cioccolata.


In croce cadente sui corpi morti dei tuoi ricordi.


In fila aspettano di essere presi, fasciati, stretti, senza spazi.


Ta Ta Ta



In tre ritmi mi chiudi gli occhi.


Trovo te.


Sbuccio una pesca. In dieci pezzi nel bicchiere di vetro. Quello grande. Forchetta. A mangiare con calma, a farsi scendere il succo sui polsi. Lecco.


Trova un modo per dire che sei. Trovato. Squilla.

“Sono io”

Ho qualcosa da dirti, come sempre. Non trovo come sempre la parola. Sono giorni che chiedo al gatto di lavarsi le orecchie.


Gira in casa, senza guardarmi.


Ti cerco.


Ancora in lui.


Negli altri, che non sono te.


Due (bum bum) colpi.


Li senti?

Dai che li senti (shhhhhhhhhhhhhhhhh). Sono nodi sciolti sulla mia lingua. I piedi immobili. Ginocchia a piangere. Incolonno. Su tele scolpite. Guardo una persona con due denti. Tutta la sua vita. Sigarette.


Crema.


Ho fogli. Libri da non leggere, matite con cui non scrivere. La smetto.


Bouquet appassito. Acqua nel vaso. A bere.


È. Senza cambio. Batte sullo stesso angolo.


In discesa.


Hai perso momenti per eterni presentimenti di me.


Non.

Fuori. Dal balcone a sentire di te. In tutto. Non ho mai fazzoletti in borsa.


Lacrime a ridere.


A perle sul collo. Alto.


Non devi trovare risposte in quello che vorrei domandarti. È questione di sentirle certe cose. Come…



Scarpe verdi. Puoi capire. Colora.


Questo è il dentro.


(Da dentro22, opera inedita)



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Confrontarsi con un testo della Giuliani non è semplice. Ad ogni verso di poesia, così come ad ogni rigo di prosa, la sua scrittura sembra voler mettere a dura prova il lettore. Il testo scelto, e sopra riportato, fa parte di un’opera di anni or sono, dentro22, ma mai pubblicata, se non all'epoca su “liberodiscrivere” e “scrittura fresca”, ed editata qualche tempo fa solo su 102 cartoline che la stessa Giuliani ha spedito, attuando un'azione di arte postale. È stato difficile anche scegliere lo stralcio da proporre e commentare, essendo un’opera che pare scritta per essere letta tutta d’un fiato. Mi sono, allora, soffermata su questo dentroinprima, affascinata anche dalla scelta lessicale e dall’uso di numerose onomatopee, ricordo lontano di quel Marinetti che tentò di rivoltare la scrittura italiana, ma che poi non ebbe in effetti l’eco raggiunta dal movimento nelle arti figurative, attraverso le opere di Balla o Boccioni. Ed è vicino alle arti figurative, l’incedere della Giuliani, quasi voglia rappresentare visivamente ciò che scrive -Bouquet appassito. Acqua nel vaso. A bere - o ancora - A mangiare con calma, a farsi scendere il succo sui polsi. Lecco -, quasi tenga in mano, piuttosto che una penna, una di quelle vecchie super 8, con cui si aggira in un mondo onirico e immaginifico, riportandocelo esattamente come è. O come lei lo vede. 

È come fossero flussi di coscienza, come se i diversi capitoli dell’opera si inseguissero nella mente dell’autrice e trovassero riposo, senza ordine apparente, soltanto una volta deposti sul foglio. È un incedere in salita, come a non aver più fiato se non raggiunta la cima, per poi rendersi conto che ogni testo, ogni Interno che compone il libro, è una sorta di capitolo a sé, un incubo/sogno che trova pace soltanto dopo essere raccontato, letto, consegnato alla altrui responsabilità. 

Quella della Giuliani si manifesta senz’altro come una poesia di rottura, così come lo sono i testi in prosa, prosa che appare altrettanto sincopata. È una scrittura in cui si ritrovano frequentissimi punti fermi, spesso dopo ogni parola, che a mio parere manifestano graficamente anche la negazione che si rintraccia nella sintassi e nel lessico, che danno, o celano, il senso alla frase. Mi riferisco al negare continuo, al procedere per sottrazione, dato molto interessante e che viene a mio parere suffragato dai molti avverbi di negazione - Libri da non leggere, matite con cui non scrivere, non ho mai, non devi trovare -, dalle preposizioni negative – senza-, perché 

Non devi trovare risposte in quello che vorrei domandarti. È questione di sentirle certe cose.

Leggiamola, la Giuliani:

- Una mamma allatta suo figlio sulla destra. / … Con la mano sinistra si tocca i capelli/Ginocchia a piangere/… Incolonno. Su tele scolpite. -;

leggiamola, e saremo come catapultati sulla poltrona della sala di un cinema, a “vedere” la sua scrittura trasformarsi in immagini e, scossi dalle stesse, ritorneremo alle nostre vite con tante domande in più. Forse senza alcuna risposta, ma a cosa deve contribuire, la poesia, se non a suscitare sempre nuovi interrogativi? 

Melania Valenti

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Barbara Giuliani, nata a Pescara nel 1979. Ha frequentato il collettivo «Voici la Bombe» e «Cochonnerie Labile»; ha fondato due piccole case editrici, «Barrette Indipendenti» e le edizioni «trepuntinidisospensione»; è stata slammer e MC per PoetrySlamAbruzzo; è stata redattore per la sezione «Poiein» della rivista Neutopia. Da gennaio 2019 insegna scrittura poetica presso la Scuola Macondo di Pescara; con Debora Vinciguerra (ceramista) ha realizzato la trilogia di installazioni di poesia reale (Eptá2912 metri sul livello del mare – Velanidiá); è direttrice artistica del FLAP (Festival di libri e altre cose – sezione Poesia).

Sue le raccolte di poesia Bergamo Mantova solo andata (BCE Samiszdat 2009), Floppy (Autoprodotto 2015), Cloroformio (Prospero Editore 2016), L’Aria Rancida (Gli elefanti Edizioni 2018), Bianca (Neo Edizioni 2022) e Occidente (Round Midnight Edizioni 2023. 

È appena uscita, nella collana “Manufatti poetici” di Zacinto Edizioni, materia madre (versione minima). 




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