RUGIADE - Alba Gnazi - Lettera-commento a Lara Pagani dopo la lettura del suo libro "Le viti del pianto"


 




                      Carissima Lara,

 

Ti ho letta[1] come quando ci si tuffa dentro una cascata: un tuffo dall’alto, nel gorgo soffice e terrificante della schiuma, con l’acqua nel naso, nelle orecchie, attraverso il rimbombo di un qualcosa che sembra seguire oppure precedere – o entrambi: in avanti, dentro e sotto, nel torrente limpido e insieme fosco delle tue parole.
Dozzine le parti che ho sottolineato, catturata da singoli elementi fonici, strutture sintattiche di disinnesco del senso con accostamenti sorprendenti, perfettamente centrati; e ancora: mimesi del parlato, rimandi di varia natura; la sinestesia potentissima del titolo innervata in un ossimoro – dalla vite -pianta dalle risonanze mitologiche e cristiane che simboleggia abbondanza, ricchezza, festa- proviene il pianto, che è catarsi e, al contempo, segno di pena percussiva, che qui ingenera frutti di dolcissima dolenza.

 

 

Dei tuoi dolori non fare parola –
tirare dritto fosse l’ultima prova,
l’ultimo incendio della tua figura:

anche questo sei tu, pianeta rosso
per orbite e per anelli che splendono
al dito, nera cometa e sventura
di tutte le solitudini, tu –

passi e gli angeli si piegano, girano
le viti del pianto. Dai tuoi dolori
brucia una risata – dal mento d’oro
spunta al cosmo l’inedito profilo.[2]



La stirpe eletta delle voci madrine del tuo poetare emergono tra spruzzi e scintillii – qui un Montale, lì un Penna, qui una Gualtieri, lì un Rilke; altrove, talvolta per analogia di senso o puro rimando testuale, un Eliot o una Plath: ma è la tua voce che, come un basso continuo, si effonde e diffonde, a circondare e plasmare il dettato dell’io poetante, in serrato ininterrotto dialogo con un tu/voi che in più occasioni ho creduto fosse l’architrave dell’anima, quel sé scrivente che nel retrobottega della poesia costruisce intuizioni e piccole rivoluzioni.

 

Cammino sulla sponda del mio mare
che non è calmo, non è tutto azzurro -
azzurri sono gli occhi disegnati
sul viso, quelle gemme che nascondo
come parole perché fanno male.
Lunghi e ramati i miei capelli, sfoggio
un sorriso capace di confondere
i cercatori di perle più avveduti:
non mi avrete, voi bestie – sono l’acqua
che manca sotto i piedi, sono il fuoco
che arretra al solo pensiero di toccarvi.[3]

 


Tra le parti sottolineate, emerge l’insieme della fauna (ad es. gli uccelli, gli insetti, le volpi) e i corpi celesti: immenso e variegato il tuo cosmo, Lara, pari al respiro del tuo versificare, al ritmo che accudisce tempi propri assolutamente centrati, all’insieme lessicale che, lungi dal “toglier[ti] di mezzo”, come scrivi in uno dei tuoi bellissimi testi, ti rende presente e viva, seppure inafferrabile, elusiva, già oltre.
Ho corso con te, e pianto con te – in diverse delle tue poesie ho incontrato un dolore che, con Baudelaire, chiamerei “mon semblable, mon frère” – e scavato con te nei meandri dell’indicibile, e trovato lì sotto una stella.

 

 

Chi chiameresti se stessi crollando
insieme al pavimento e sapessi
contati i tuoi secondi al millimetro –
se fossi nell’incastro di un taglio,
al centro di un incendio, se suonassero
le sirene ma da lontano e poi sempre
più vicino, dimmi – chi chiameresti
senza più niente da domandare, niente
buongiorno o convenevoli, se il giorno
ti si piantasse in testa come l’ultimo,
se ti sfrecciasse davanti il treno chi, chi

chi chiameresti per dire le rime
proibite in poesia: amore, mio amore
ci siamo, tieniti forte, ci mancheremo
a lungo – ci sfioreremo con un fiore.[4]

 


Nella corsa panica di eros e thanatos – inseparabili e spaventosi, nella trama dei loro incanti, nell’avvicendarsi del loro nascere e morire e nascere e morire senza posa – ineffabile si distingue il tuo controcanto di poeta che sa chiamare “ogni dolore delebile”, nella finale accettazione di quel dolore in cui si innesta l’umano procedere e che ci rende, per l’appunto, profondamente umani, dalla cui vite possono sgorgare, per antitesi, frutti di vita (la paronomasia vita/vite, qui, era d’obbligo) e lucentissima gioia.

 

 

Una parola non basta ma mille
nemmeno: ci vorrebbe la secolare
devozione degli alberi al silenzio.[5]

 



[1] Lara Pagani ha da poco pubblicato (novembre 2024) con la casa editrice ilglomerulodisale la silloge “Le viti del pianto”, con prefazione di Franca Alaimo e uno scritto di Daìta Martinez in quarta di copertina

[2]Dei tuoi dolori non fare parola”, op.cit., pag.34

[3]Cammino sulla sponda del mio mare”, op. cit., pag.30

[4]Chi chiameresti se stessi crollando”, op. cit., pag. 54

[5]Una parola non basta ma mille”, op. cit., pag.81

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