FLUSSI E VISIONI - Zeudi Zacconi – “L’ultima specie, la resa”

 

Zeudi Zacconi


Contiamo infiniti cadaveri. Siamo

l’ultima specie umana. Sporgenti

su una rovina che plana a colpi

d’ala nera, a becco, a unghiate.

Le ore sono alla fine. La terra

respira poco. Fa fatica.

 

(Mariangela Gualtieri, Ruvido umano)

 

***

Forse non ci hanno insegnato la gioia – la rabbia sì – e come loro, più di loro a sentirla. Forse, se tutto si distrugge in questo guerreggiare, se tutto prima o poi sparisce e si dimentica, un riparo dall’atroce ce lo dobbiamo, quantomeno, un rifugio dall’odio della specie subumana che siamo diventati. E allora armiamoci dell’unico fiorire che non viene meno, dell’unico germoglio che smuove uragani senza il potere di inghiottire, perché la forza della gioia è sotterranea, e in quanto tale sradicabile. Se siamo a questo mondo da secoli, eppure ancora brancoliamo nel buio del dominio e del comando e ci consumiamo. Se non sappiamo come fare a sopravviverci, a non fagocitarci nelle rabbie con le rabbie e per le rabbie. Se la guerriglia erode il buono, e scaglia il marcio come un avventore a strapparci gli occhi con gli artigli del distorto, allora “Dateci il maggio / con la sua corona. E un cielo liberato. Dateci tutta intera l’avventura del sole / alleato. Siamo creature delicate / e senza luce precipitiamo.”

Così si leva la voce di Mariangela Gualtieri, fra compassione ed esortazione, tenerezza e indignazione per la grave malattia che divora l’umanità, per questo non contare niente che proprio non ci riesce, per questo non saper toccare con delicatezza il mondo, non riuscire a credere nel miracolo incendiato dell’intimo ascolto: “Io questo chiedo, farli sanguinare / con le parole. Farli innamorare.”

Che sia un sanguinare dunque. E un precipitare pieno, totale, definitivo e ultimo. Ma nella luce. Che sia un fiume che lava le colpe, che ripulisce i visi, che spazza via le corruzioni e i soprusi. Che disargina. Noi sopraffatti umani venduti alla follia della sopraffazione, noi che non ci pieghiamo, ma a non piegarci ci spezziamo, noi rotti e frantumati alla deriva. Noi dispersi, noi rinnegati. Noi irrecuperabili e spacciati. E ancora noi, i condannati all’alienazione del non avvertire più nulla –l’orrore – del non distinguere l’interno dall’esterno, il reale dal virtuale, la paura dalla manipolazione, la condivisione dalla contaminazione. Il togliere dall’accrescere. Quell’Io che è anche Noi, duale e collettivo Noi,  in cui siamo immersi fin dalla gestazione e in cui ci riconosciamo come esseri vivi e compiuti, seppur mai giunti a compimento. Di cui ci nutriamo per consumare la nostra stessa esistenza. Eppure noi, che vogliamo ancora sentire tutto, che tentiamo di ritrovarci in questa profonda inquietudine – e spaesante – e spaesati desideriamo ancora quel fiammare alto, quel segreto bruciare sacra brace / che scotta, quel ritornare – creature spossate – all’ Amore. Patria nostra tradita.

 

Dipanare una fetta di scuro

mondiale. Tenere il sangue acceso.

Essere cosmico coro.

Voce nella voce. Sentiero – per quel lago

che giace sul fondo – ghiacciato.

Pericoloso. Paurosissimo vero.

 

*** 

 

[…] Tu muori e rimuori

ogni giorno alle ore dei pasti

e io non sono capace di partorirti

di nuovo. Fare

il miracolo di tornare a prima

quand’eri nuovo, caldo tutto intero,

non così sporco, rotto, con la ferita

che butta sangue nero.

 

Tornare ad un prima intatto, recuperare un bene integro sperduto e frantumato, raccogliere la sporcizia e disinfettare alla radice. Portare in noi tutta la specie, non farla franare, salvarla: “O tutti quanti o nessuno”. Per non replicare le morti nei giorni – le innumerevoli morti – riconducibili ad una soltanto, che è morte del mondo: “Ma sei sempre tu / che rimuori in un punto a caso, lo so.”

E tutto ancora ci spaventa e ci meraviglia, e tutto sgrana il pulviscolo che siamo. Noi che impastati giacciamo con la terra e con la polvere, nello stesso fondo lievitante. Noi a raccoglierci nei campi delle dispersioni, fra spinosi rovi – e sempre più distanti e stremati – come allo stremo della voce, che lontanissima tenta il richiamo alla vita vera e dimenticata.

 

È mancato di stare lì

con le mani in mano

e dentro la mano

c’era invece una voce

che da molto lontano

chiede come stiamo

se ci siamo se respiriamo

sì respiriamo, sì stiamo bene

ma solo in parte noi siamo.

Siamo qui e non ci siamo.

 

***

 

La vita faceva

piccoli segnali

da quel suo corpo

    estremo –

da quel grumo.


L’umanità violenta il mondo rendendolo ruvido e inospitale, eppure i segni del sacro sono ovunque attorno. E tutto si manifesta nel miracolo del silenzio, nell’eterna lezione / del fare niente. Essere niente. / Così difficile / per noi.

 

[…] Tutto è un enigma felice

voce senza voce. Tutto dice

di sì mentre tace.

 

E allora in questo tacere ritroviamo la voce della gratitudine e della gioia, di una prodigiosa gioia che inietta le sue esche nel sangue. In questa durezza riscopriamo la dolcezza di uno sguardo comune. Nell’imminenza della fine abbracciamo l’inizio di ogni cosa, di ogni nuova forma che ci permetta di scavalcare il tempo, per raggiungere la pienezza di una specie che sappia ancora amare il pianeta che la ospita.

 

[…] Sii tu dentro un pensare che risana

in calmo soffio cerebrale,

in palpito, in assetto d’ascolto

permanente, in cantico o ninna nanna

del mondo scorticato, rotto, tutto pesto.

 

Prendilo tu fra le braccia questo mondo

con semplice toccare

piano e piano fare i tuoi passi.

Deponi ogni meta frettolosa.

Prendilo tu fra le braccia che non pesa 

questo derelitto mondo rovinato.

 

E se il marcio è la strada / per tornare in fiorita, non aspettare ancora, sii tu la primavera del mondo, la gemma che torna a sorridere, la dismisura che muove la bellezza, l’entusiasmo sotto che eccede senza parsimonia, l’esagerata avventura di forme e di colore. L’ebbrezza che accende la terra.

Perché “Un invisibile preme per uscire / da quel dietro.” Per raggiungere quel “tutto che rotola / intero. Il sontuoso niente / del cielo.” E perché sotto questa pelle ruvida c’è un corpo tremante – polvere di stelle rotte – che chiede ancora una carezza.


Lo senti? Tutto sta in attesa di una pietà / tutto implora una nostra resa.


Filippo Manfroni, Il settimo giorno



tocca a te mettere lì un dettato / di umanità.





Riferimenti:

Mariangela Gualtieri, Ruvido umano, Giulio Einaudi Editore, Torino 2024.


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