DA ORFEO ALL’INFINITO. SGUARDI E INCURSIONI POETICHE - Daniele Ricci - "Veglia" di Giuseppe Ungaretti -

 

Daniele Ricci


Veglia di Giuseppe Ungaretti e la “duplice prospettiva della trincea”


VEGLIA[1]

Cima Quattro il 23 dicembre 1915

 

Un’intera nottata

buttato vicino

a un compagno

massacrato

con la sua bocca                                                    5

digrignata

volta al plenilunio

con la congestione

delle sue mani

penetrata                                                                  10

nel mio silenzio

ho scritto

lettere piene d’amore

 

Non sono mai stato

tanto                                                                          15

attaccato alla vita


 

Voglio iniziare il mio “viaggio” con voi con questa nota lirica di Giuseppe Ungaretti, perché è una potente celebrazione del valore e del senso della poesia. Soprattutto nel nostro tempo. E ci ricorda perché oggi, più che mai, ci sia così urgente bisogno di poesia.

Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto 1888 – Milano 1971) nel sentimento collettivo dei lettori italiani è stato ed è ancora oggi l’uomo e il poeta della Grande Guerra. Anche in questi giorni è in corso a Gorizia una mostra dedicata ad Ungaretti soldato e poeta sul Carso[2].

Ungaretti è stato certamente uno dei maggiori poeti italiani della letteratura del Novecento. L’importanza di Ungaretti si lega non soltanto all’alto valore artistico delle sue opere poetiche, ma anche all’influenza esercitata sulle esperienze letterarie successive. Oggi è considerato dalla critica uno dei fondatori del canone poetico del Novecento, uno dei maestri-modelli della poesia del Novecento insieme a Umberto Saba ed Eugenio Montale: se Saba è il capostipite del filone realistico e impressionistico (della linea cosiddetta “antinovecentista”, per dirla con Pier Paolo Pasolini) e Montale è il capostipite del “classicismo moderno” (cioè di una poesia metafisica, astratta, filosofica, alta e allegorica, che coniuga classicità e modernità), Ungaretti  si pone a capo del filone postsimbolista della “poesia pura” e analogica che, partendo da Baudelaire e i Simbolisti francesi e passando in Italia attraverso il simbolismo decadente e impressionista di Giovanni Pascoli e l’estetismo di Gabriele D’Annunzio, diventa canone con Ungaretti nei primi anni del Novecento e confluisce poi nell’Ermetismo degli anni Trenta e Quaranta. Ungaretti dunque è il capostipite della linea “novecentista”, così detta proprio perché a lungo considerata centrale nel Novecento.

L’opera poetica ungarettiana si può dividere in due principali stagioni: a) la produzione poetica della giovinezza, quella degli anni Dieci del ‘900, confluita dapprima ne Il porto sepolto (1916, composto da 33 testi), poi in Allegria di naufragi (1919, silloge composta da 84 testi divisi in dieci sezioni), successivamente in una nuova edizione de Il porto sepolto nel 1923 (con Prefazione di Benito Mussolini, libro composto da 67 testi divisi in quattro sezioni), e infine ne L’allegria (1931, 1936 e 1942, 75 poesie divise in cinque sezioni, Ultime, Il porto sepolto, Naufràgi, Girovago e Prime): questa prima produzione poetica si presenta assai originale e rivoluzionaria e risente dell’influenza delle avanguardie letterarie e artistiche con cui Ungaretti entra in contatto prima ad Alessandria d’Egitto e poi soprattutto a Parigi (1912-1914); b) segue la produzione poetica della maturità e della vecchiaia, a partire dagli anni Venti, da Sentimento del tempo (1933) in poi (Il dolore, 1947; La terra promessa, 1950; Un grido e paesaggi, 1952 e Il taccuino del  vecchio, 1960), caratterizzata da un’evoluzione in senso classicistico e tradizionalista, corrispondente dopo il 1920 in Europa alla crisi delle avanguardie e al “ritorno all’ordine”.

Tutte le poesie di Ungaretti sono state infine raccolte in Vita d’un uomo. Tutte le poesie (1969).

Come ho già detto sopra, Giuseppe Ungaretti nel sentimento collettivo dei lettori italiani è stato ed è ancora oggi l’uomo e il poeta della Grande Guerra, non la guerra dei generali e della Storia, ma la guerra del soldato semplice, la vita quotidiana, terribile e tragica, del soldato in trincea che rischiava la vita ogni giorno. Le sue poesie sulla Grande Guerra sono tutte contenute ne L’allegria, la prima importante raccolta del poeta di Alessandria d’Egitto. Prima di giungere al titolo e alla versione definitiva, L’allegria subisce una lunga elaborazione: un’articolata vicenda editoriale, che passa attraverso 6 edizioni, e una lunga trafila di correzioni, varianti e redazioni provvisorie (è noto – grazie soprattutto a critici come Giuseppe De Robertis - il lungo lavoro sulle varianti operato dal poeta, soprattutto nel senso dello snellimento e della “scarnificazione” dei testi). Delle 75 poesie che formano l’edizione definitiva del libro, soltanto 8 sono rimaste tali e quali in tutta la lunga trafila di edizioni.

La produzione poetica ungarettiana della giovinezza, in gran parte costituita da testi scritti durante la prima guerra mondiale, tra 1914 e il 1919, confluisce dapprima ne Il porto sepolto (1916). Quando scrive le 33 poesie del libello, Ungaretti sta combattendo sul Carso e tema pressoché unico di quest’opera è appunto la guerra. Il porto sepolto viene pubblicato in ottanta esemplari, a cura del “gentile” Ettore Serra - il giovane tenente e critico letterario conosciuto dal poeta sul Carso - nello Stabilimento Tipografico Friulano di Udine nel dicembre del 1916. Il titolo, Il porto sepolto, allude a una leggenda diffusa in Egitto sull’esistenza di un antico porto sommerso nei pressi di Alessandria[3]. Tuttavia, dietro il rimando leggendario si coglie un riferimento alla forma misteriosa e nascosta (“sepolto”) che assumono il significato e il valore delle cose (“il porto”). Vi è insomma già un indizio della poetica simbolista di Ungaretti: è infatti la parola stessa, la parola poetica, a essere sepolta nel silenzio della vita, e al poeta spetta il compito di evocarne e recuperare il mistero, il fascino e il potere di significare un valore.

La poesia Veglia è già presente ne Il porto sepolto e sarà presente in tutte le successive edizioni de L’allegria.

Come ho cercato di dimostrare in un saggio (ancora inedito) scritto alcuni anni fa[4], la guerra in quanto tale, come scontro di forze, come “antitesi”, come opposizione di eserciti che si combattono al fronte, la guerra come esperienza drammatica, tragica, estrema, e la guerra che ha combattuto nel caso specifico il soldato Giuseppe Ungaretti ovvero la guerra di trincea sul Carso, che fu guerra di frontiera, di “posizione” e di “logoramento”, evoca ed è espressione di quello stile antitetico, di quella “compresenza dei contrari” che, come ha rilevato anche Franco Musarra[5], è un tratto fondamentale e uno dei principali aspetti della modernità dell’Allegria di Ungaretti.

La “guerra” è il luogo fisico, reale, e il tema letterario in cui trova espressione la “poetica della trincea”, cioè tutte le antitesi, gli ossimori, le strutture contrastive, le opposizioni dialettiche, le ambivalenze e contraddizioni che caratterizzano la poesia del primo Ungaretti.

L’antitesi ovvero il gusto di procedere per contrapposizioni è costantemente presente nell’Allegria a tutti i livelli (formale, stilistico e lessicale, e tematico), è la struttura dominante e una delle chiavi di lettura della poesia ungarettiana della prima fase. Ebbene, come ho cercato di dimostrare nel mio saggio, l’antitesi ne L’allegria è evocata e suggerita dal tema della guerra: l’esperienza della guerra, la vita quotidiana del poeta al fronte, in trincea, genera e favorisce quella che ho chiamato “la duplice prospettiva della trincea”: una prospettiva “orizzontale” che guarda alla tragica realtà della guerra e una prospettiva “verticale” che ha lo sguardo teso verso il cielo, verso l’infinito.

D’altra parte la guerra come violento scontro di forze, di eserciti che si fronteggiano è già di per sé antitesi, scontro drammatico, contrasto di poli opposti.

Per Ungaretti poi la guerra ha una valenza ambigua, negativa e positiva insieme.  Negativa perché la guerra è tragedia e orrore; positiva perché la guerra è presa di coscienza della realtà, di sé, della condizione umana, conquista di una propria identità, generatrice dello slancio vitale. E tale ambiguità si rispecchia e trova espressione nell’ambivalenza e nelle molteplici contraddizioni della poesia del primo Ungaretti.

Principio originario, generatore di questa “poetica della trincea”, dell’antitesi e della contraddizione è la compresenza contraddittoria, la duplice e opposta esigenza (interiore, esistenziale e culturale) di immediatezza, di “attualità”, di adesione piena alla realtà concreta e materiale da un lato e di allontanamento dall’esperienza e dalla biografia storica del poeta, di assolutezza, di astrattezza e sublimazione della realtà dall’altro. La fitta presenza di antitesi, strutture contrastive e poli oppositivi nasce da questa compresenza, dalla convivenza inscindibile di due momenti, di due poli opposti e dialettici: il senso di immediatezza, l’urgenza biografica e diaristica, da una parte, e l’astrattezza, l’assolutezza lirica e l’allusione analogica e simbolistica dall’altra (fra queste due tensioni, al tempo de Il porto sepolto, a prevalere è tutto sommato la prima, ma al tempo de L’allegria, dagli anni Venti in poi, con una riorganizzazione organica e astratta della raccolta, prevale poi la seconda).

È il paradosso, la contraddizione di cui parla anche Ungaretti nelle Note introduttive a Vita d’un uomo. Tutte le poesie (cit., p. 520), dove riassume il senso dell’esperienza vissuta in guerra: “Ero in presenza della morte, in presenza della natura, di una natura che imparavo a conoscere in modo nuovo, in modo terribile. Dal momento che arrivo ad essere un uomo che fa la guerra, non è l’idea d’uccidere o d’essere ucciso che mi tormenta; ero un uomo che non voleva per sé se non i rapporti con l’assoluto, l’assoluto che era rappresentato dalla morte, non dal pericolo, che era rappresentato da quella tragedia che portava l’uomo a incontrarsi nel massacro. Nella mia poesia non c’è traccia d’odio per il nemico, né per nessuno: c’è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell’estrema precarietà della loro condizione. C’è volontà d’espressione, necessità d’espressione, c’è esaltazione, ne Il porto sepolto, quell’esaltazione quasi selvaggia dello slancio vitale, dell’appetito di vivere che è moltiplicato dalla prossimità e dalla quotidiana frequentazione della morte. Viviamo nella contraddizione”.

La prospettiva che il poeta-soldato ha nella trincea è duplice e opposta: ha uno sguardo orizzontale e prevalentemente diurno verso la guerra e le sue atrocità, verso la cruda realtà quotidiana dell’uomo al fronte; ma ha anche uno sguardo (reale e mentale) verticale, verso il cielo, verso l’infinito, prevalentemente notturno.

La trincea da una parte è prigione, limite, violenza e dolore, dramma e precarietà, dall’altra è scoperta dell’essere, desiderio di evasione, tensione verso il cielo, ansia metafisica, fuga nell’infinito, slancio vitale: la trincea è “naufragio” e scatto verso l’“allegria”, cioè “allegria di naufragi”, è morte e vita, è presente e passato (lampi della memoria), è presa di coscienza della tragica condizione umana e spinta verso la poesia.

Dunque la poesia de L’allegria, in quanto poesia di guerra e di “trincea” (poesia “ossimorica”), presenta numerosi contrasti e opposizioni dialettiche a tutti i livelli.

L’asse semico fondamentale dell’universo tematico de L’allegria è costituito dalla doppia e parallela opposizione dialettica “guerra” vs. “pace/amore” e “morte” vs. “vita” (“slancio vitale”).

La poesia, forse la più celebre della intera raccolta, che meglio esemplifica e spiega in modo indimenticabile e che contiene in sé questa contrapposizione tra morte e vita, tra guerra e amore/pace, in cui compaiono contemporaneamente tutti e quattro gli elementi nodali del sistema logico-semantico de L’allegria, è Veglia.

Veglia fu composta a Cima Quattro il 23 dicembre 1915: Ungaretti è appena arrivato sul fronte, sul Carso, dove ha chiesto insistentemente di andare, perché il poeta di Alessandria d’Egitto è interventista e forte è il suo desiderio di combattere per la patria italiana per sentirsi parte di essa ed acquisire finalmente quell’identità di italiano che proprio con la guerra pensava di poter raggiungere, lui che diceva di essere un “senza patria” e un “girovago”, e che prima di venire in Italia per arruolarsi e andare in guerra aveva vissuto nella sua terra patria solo per pochi mesi. Veglia dunque è una delle prime liriche composte dal poeta in guerra sul Carso ed è il testo che traumaticamente inaugura il vero e proprio “diario di guerra” che presto sarebbe diventato la silloge Il porto sepolto: cronologicamente segue solo Lindoro di deserto (poesia composta il 22 dicembre 1915), mentre nell’L’allegria è la quarta poesia della seconda sezione Il porto sepolto e segue le due poesie introduttive In memoria e Il porto sepolto e appunto Lindoro di deserto.

Veglia è una delle poesie de Il porto sepolto più caratterizzate in senso espressionistico, più cariche di immagini e parole violente e deformanti: v. 2 “buttato”, v. 4 “massacrato”, vv. 5-6 “con la sua bocca / digrignata”, cioè con la bocca contratta e i denti in mostra, v. 8 “congestione”, cioè il gonfiore, v. 10 “penetrata”; contribuiscono a conferire a tali termini una violenta carica espressionistica anche la posizione rilevata nel verso, per cui tre dei cinque esempi sono isolati in un unico verso, e l’insistenza su alcuni suoni, in particolare la desinenza “-ata/-ato”, assai cara al poeta: cfr. i vv. 1, 2, 4, 6, 10, 14, 16.

Il poeta resta a lungo, per tutta la notte, accanto al cadavere di un compagno, fino quasi a condividere con lui l’esperienza della morte; e nondimeno rovescia e riscatta la tragica condizione attraverso un intenso atto vitale: scrivere “lettere piene d’amore” (v. 12). Il poeta non si arrende all’insensatezza del dolore e della morte e reagisce con la forza dell’”allegria” vitale, con lo slancio verso la vita, verso l’amore (vv. 14-16 “Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita”).

L’attaccamento alla vita affermato nella conclusione è l’espressione, in qualche modo religiosa, di un’assunzione, nell’esistenza del sopravvissuto, della vitalità del morto: non il morto “fa morire” il vivo, ma il vivo “fa rivivere” il morto, restituisce vita al cadavere attraverso la scrittura, la poesia e l’amore per la vita. È la vittoria della vita, dell’”allegria”, dello “slancio vitale” sulla morte. Paradossalmente in questo testo la morte genera vita attraverso la letteratura (“ho scritto / lettere”) e genera amore (lettere “piene d’amore”).

L’assenza di punteggiatura, di fatto sostituita da una cascata di enjambement, permetterebbe addirittura di intendere le due preposizioni, ai vv. 5 e 8, come complementi di mezzo retti da “ho scritto” (v. 12). E allora il senso della frase sarebbe: “ho scritto con la bocca digrignata… e con (la congestione del) le mani del soldato morto lettere piene d’amore”. Ma non è necessario spingersi a tanto, perché la “scrittura” suggerita dalla poesia è da intendere come una metafora della vita, come il segno affettuoso di un’obiezione alla morte.

La morte è la sospensione assoluta del linguaggio, è il silenzio totale. Ma proprio da questo limite estremo nasce la parola più profonda, la volontà di comunicazione, di vita e di armonia con l’universo simboleggiata dalle lettere d’amore.

Lo slancio vitale dei versi conclusivi di Veglia è uno degli esempi più espliciti di quella “poetica dell’allegria e del naufragio”, ovvero della percezione dell’entusiasmo nel dolore, che lo stesso Ungaretti in vecchiaia, commentando L’allegria, e in particolare il titolo della raccolta del 1919 Allegria di naufragi, nelle Note a Vita d’un uomo. Tutte le poesie (cit., p. 517), descriverà così: “Il primitivo titolo, strano, dicono, era Allegria di naufragi. Strano se tutto non fosse naufragio, se tutto non fosse travolto, soffocato, consumato dal tempo… È il punto dal quale scatta quell’esultanza d’un attimo, quell’allegria che, quale fonte, non avrà mai se non il sentimento della presenza della morte da scongiurare. Non si tratta di filosofia, si tratta d’esperienza concreta”.

Il senso del titolo che la raccolta prenderà nel 1919, Allegria di naufragi, poi semplificato ne L’allegria, è proprio questo senso del ricominciamento, come dopo una catastrofe, una cesura, un’interruzione, che è simboleggiata appunto dalle interruzioni che frantumano il dettato della sua poesia: dopo una catastrofe, dopo la fine (di un verso), il verso, così come la vita, riprende ogni volta, riprende il suo viaggio, riprende il suo incontro, anche con i lettori. Questo ottimismo paradossale di Ungaretti sicuramente deriva dalle letture di Friedrich Nietzsche (1844-1900) e in generale dal clima filosofico d’anteguerra che lo aveva nutrito già nel periodo in cui studiava a Parigi. Ma in generale l’immagine che Ungaretti vuole lasciare di sé, anche in queste condizioni tragiche ed estreme, è quella di un grande “slancio vitale”, per citare un altro dei suoi maestri, il filosofo francese Henri Bergson (1859-1941.





[1] Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1969, 1992, p. 25.

[2] Ungaretti poeta e soldato. Il Carso e l’anima del mondo. Poesia, pittura e storia, Gorizia, Museo Civico di Santa Chiara (dal 26/10/2024 al 04/05/2025).

[3] Scrive Giuseppe Ungaretti nelle Note a L’allegria, cit., pp. 519-520: “Verso i sedici, diciassette anni… ho conosciuto due giovani ingegneri francesi, i fratelli Thuile… Mi parlavano d’un porto, d’un porto sommerso, che doveva precedere l’epoca tolemaica, provando che Alessandria era già un porto prima d’Alessandro Magno…”.

[4] Giuseppe Ungaretti e “la prospettiva della trincea”: opposizioni dialettiche e contrasti generativi nell’opera poetica del primo Ungaretti. Il contenuto di tale testo è stato oggetto il 24 marzo 2015, a Palazzo Corbelli a Fano (PU), di una mia conferenza: “Giuseppe Ungaretti e la guerra: da Il porto sepolto a L’allegria (con letture di Enrico Spelta e musiche di Enrico Carlo Baldarelli e Gianmarco Orciari). La conferenza è stata organizzata dall’Università dei Saperi “Giulio Grimaldi” di Fano.

[5] Franco Musarra, Risillabare Ungaretti, Roma, Bulzoni Editore, 1992.


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