POETI INCONTRATI FUORI DALLA STRADA BIANCA - Filippo Golia incontra Gabriele Galloni

 

Filippo Golia

Non ho incontrato Gabriele Galloni se non nell’urlo che ha accompagnato la sua fine e a me è arrivato dalla rete, dai social.
Prima non sapevo chi fosse, a riprova del fatto che seguo la poesia con un occhio solo (dell’altro avendo bisogno per altre cose). Più avanti è stata sua mamma Irma a cercarmi e a coinvolgermi in qualche attività per ricordare il figlio. Ho realizzato un servizio televisivo su di lui e, per farlo, ho convocato e conosciuto i suoi amici, sfogliato le sue foto letto i suoi libri e le sue poesie.
Credo quindi di poterne tracciare un ritratto, come se lo avessi incontrato.
E viene fuori il ritratto di uno splendido ragazzo, nato al Trullo a Roma, che amava Bruce Springsteen e che aveva nei tratti, nella postura, nella creatività, il suo stesso carisma e la sua stessa capacità di seduzione. Quasi come in un gioco dei doppi, come in un romanzo di Tommaso Pincio.
Uno splendido ragazzo che sembrava l’immagine stessa della salute, ma era affetto da una grave malattia congenita, a cui forse è legata la sua fine.
E questo splendido ragazzo, per colmo di sfortune che si sommano, era un grande poeta, di quelli su cui non possono esserci dubbi e di cui ogni singolo verso è subito interessante.

Uno che può calare con noncuranza quattro endecasillabi (due piani e due sdruccioli) sospesi tra angoscia e levità, come:

Si parlava dei morti. Sulla tavola
i resti sparsi della cena – quelle
bistecche appena cotte. Il frigorifero
in dialogo amoroso con le stelle.

E quindi, nonostante in vita sia stato riconosciuto dagli altri poeti e dal mondo editoriale, era destinato a restare, appunto finché in vita, in una posizione imbarazzante, da incompreso.
Perché è difficile far coincidere l’immagine di un giovane, all’apparenza sanissimo, di una borgata di Roma, dove la poesia emerge più facilmente come street poetry e si apparenta al rap (come per i Poeti del Trulllo), con quella di un poeta malato, sofisticato e dall’ineguagliabile rigore formale.
E poi i poeti, soprattutto da giovani, di solito, sono un guaio. Li riconosci a mille miglia: hanno l’aria da poeti.
Sfogliando le sue foto, invece, trovi quasi sempre proprio quel ragazzo, circondato da infiniti amici, con tanta voglia di divertirsi; e nelle poche in cui invece è solo, concentrato e pensoso, assomiglia più a un divo del cinema.
Al punto che anche sua mamma non aveva potuto riconoscerlo (nemmeno in negativo, come spesso capita, Baudelaire insegna); aveva un figlio da crescere e tanti problemi, non poteva star dietro a una cosa come la poesia.
Succede spesso, lo so. Ma credo che in questo caso la poesia, la sua possibilità, fosse nascosta e dissimulata in modo anche più sottile che in altri.
Scelgo un componimento tra i tanti, da mettere qui; per illustrare quella miscela di stupefatta, lucida, trasparente e onirica visione e insieme di meticolosa ricostruzione di un paesaggio noto, nominato, geograficamente reperibile, vicino, umanamente vissuto, che innesca la sua poetica:

La corriera si fermò in mezzo ai campi
di Maccarese; l’autista smarrito
chiedeva indicazioni ai passeggeri
sul tragitto rimasto. Era perduto,
il pomeriggio; perso che scendemmo
dalla corriera e facendoci largo
tra il grano arrivammo alla spiaggia

Libera. Sparsi e rari ombrelloni;
nascondemmo i vestiti in una buca.
In acqua realizzammo con il sale
una per una tutte le ferite.

Quest’idea, delle ferite che vengono realizzate una ad una, grazie al sale; questa illuminazione - in cui la scrittura trapassa da una descrizione a una dimensione diversa - l’ho sottolineata nel mio libro, tempo fa. E continua, la poesia, ripartendo dalle ferite:

Alcune piccole, molte invisibili
ma dolorose al tocco e all’unghia; come
ogni verginità di questo mondo.

Sparì l’amica in un tuffo e riemerse
distante. Mi chiamò per poi sparire
ancora e prendermi le gambe e farmi
scivolare sul fondo. La inseguii
fino a una secca, dove centinaia
di pesci agonizzavano spiaggiati;
diversi già in putrefazione, tanto

Che al piede si attaccavano gli umori
argentei e i luccichii madreperlacei
delle squame distrutte.

Ecco. E questo moto di stupore finale, di fronte a una natura che lampeggia di splendore e disfacimento, fa pensare a Leopardi.
L’evocazione frequente della luna – nelle sue poesie - i sogni traslucidi, la sincope, continua, per la soverchiante potenza dello spettacolo naturale, sono leopardiane.

Arrivasti alla storia della Luna:
di come capitò che la scoprissi
nella sua casa una notte di eclissi;
nella sua casa dove mai a nessuna
viva persona era dato di accedere.
La descrivesti nuda, la tua Luna;
la descrivesti coperta di cenere
dal capo ai piedi; Luna che più Venere
sembrava e penitente. Non avresti
potuto dirmi certa la paura;
né sotto i piedi l’umido e le tenere
felci; solo che ai giorni del Miracolo
è bello correre, andarsene via
da ogni luce che sia
troppo grande per queste mani.


La contiguità con Leopardi, del resto frequente nella poesia italiana, ma singolare in testi così radicati nel quotidiano e nel contemporaneo, ho provato a formularla durante la presentazione, a Roma, del volume “sulla riva dei corpi e delle anime”, pubblicato da Crocetti, la raccolta postuma dell’opera di Gabriele Galloni; presentazione che ho moderato.
Mi sono spinto fino a suggerire un parallelo tra la sua poesia più celebre, I ragazzi alla spiaggia di Focene, e l’Infinito: entrambe sospese alla divaricazione del tempo, tra l’istante e l’eterno.

Ma a quella presentazione c’erano poeti importanti, che avevano frequentato Pier Paolo Pasolini, Dario Bellezza e Amelia Rosselli; e mi è sembrato facessero spallucce, dicendosi, con ragione, che un moderatore – un giornalista – dovrebbe limitarsi a fare il moderatore.
Io immagino che perfino Gabriele Galloni, se avessimo potuto incontrarci – per come me l’ha raccontato sua madre - mi avrebbe dato una bella pacca sulle spalle, ma di quelle energiche; e mi avrebbe detto qualcosa come: “A Filì, ma dai, lascia stare Leopardi dove sta…”
Del resto queste righe io le ho scritte soprattutto per Irma, che evidentemente adesso cerca suo figlio.
E invece trova, ovunque, solo questa cosa perenne, ubiqua, disumana, inafferrabile e sommamente inutile (per questo, spesso, molto bella), che è la poesia.
Una cosa così:

I morti tentano di consolarci
ma il loro tentativo è incomprensibile:
sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile
della conversazione. Sanno amarci
con una mano – e l’altra all’invisibile

 

"Sulla riva dei corpi e delle anime", Gabriele Galloni, Crocetti ed. 2023



Gabriele Galloni è nato nel 1995 a Roma, nel quartiere del Trullo. A Roma ha vissuto ed è morto il 7 settembre 2020. In vita, ha pubblicato raccolte di racconti e di versi: Slittamenti, Augh edizioni 2017; In che luce cadranno, RP libri 2018; Creatura breve, Ensemble 2018; L’estate del mondo, Marco Saya 2019.
Ha curato per la rivista Pangea la rubrica Cronache della fine – dodici conversazioni con altrettanti malati terminali. Nel 2018 ha fondato la rivista online Inverso. Le sue poesie sono state raccolte nella silloge postuma Sulla riva dei corpi e delle anime, Crocetti 2023.
Recentemente una selezione di sue prose è apparsa nel volume Luna di carne, Chi Più Ne Art Edizioni, novembre 2024.




Commenti

  1. Filippo ho pianto. Per l'umanità che ho percepito nella tua scrittura. E poi ho pianto pensando a Gabriele. Non un pianto di tristezza ma di gioia. Per quell'incontro "mancato" che è di tanti ma che poi non significa molto. A volte è quel filo invisibile che lega indissolubilmente il passato al presente. I morti non se ne vanno via mai davvero. Sanno aspettare il momento giusto dell'incontro con loro nel quale il tempo non è importante. Sono i lapsus, gli inciampi..
    Grazie infinitamente 🌻

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