FILI D'ERBA - Viola Bruno - Lo scandalo del bene e la banalità del male
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Viola Bruno |
"Non hai mai la sensazione che le persone siano incapaci di non amare?
Le persone sono meravigliose"
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Charlie (Brendan Fraser), in The Whale
Parto sempre da un dardo che mi ha colpito poco prima di prendere la penna in mano, in quel punto più intimo dell’anima scoscesa, per farne faro e prisma e vagabondare in qualche terra che merita di essere illuminata, scandagliata, perché certamente esumerà reperti di luce.
The Whale. Questo è il dardo di oggi, la citazione iniziale viene da lì, dalle lacrime di un animo puro, incapace di credere al male, alla cattiveria degli esseri umani. Le persone sono meravigliose, dice Charlie il protagonista del film di Aronofsky (1). Le persone sono incapaci di non amare.
Esiste una dichiarazione d’amore più profonda verso l’umanità? Una dichiarazione che si conficca nel cuore come una spina, e inizia a scavare: quanto si vorrebbe poterlo credere veramente, quanto si vorrebbe che fosse davvero così.
“Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda il dominio della morte, ma vedo anche uno spicchio di cielo, e questo spicchio di cielo ce l'ho nel cuore, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza. Non ci credete? Invece è così.”
Così Etty Hillesum declinava l’amore verso la vita, verso l’umanità, verso “tutte le cose veramente preziose che la cattiva sorte può distruggere”, perché in fondo basta uno spicchio di cielo per mantenere l’anima in vita, per avere fiducia in quella vita, finché quello spicchio di cielo lo possiamo osservare alzando gli occhi, o meglio, rivolgendoli all’interno, verso il cuore.
Eppure queste parole sono state scritte al di qua del filo spinato, dall’inferno in cui Etty fu deportata con la famiglia e in cui morì, a 29 anni.
Etty Hillesum è testimone e vittima della Shoah, il suo Diario e le sue Lettere, scritti tra il 1941 ed il 1943, sono un’eredità inestimabile.
“Il mio dottore si arrabbia tutte le volte che arrivo da lui con un gran sorriso sulla faccia, secondo lui è imperdonabile che si rida di questi tempi.”
Il sorriso di Etty è dunque imperdonabile, il suo Diario è scandaloso (sarà infatti pubblicato solamente nel 1981): “la mia penna stilografica non possiede accenti così efficaci da saper descrivere – sia pur nel modo più approssimativo – queste deportazioni. Ma se poi si va fra la gente, ci si rende conto che là dove ci sono uomini c’è anche vita”.
La sua ostinata celebrazione della vita, è oltraggiosa: “qui di amore non ce n’è molto eppure mi sento indicibilmente ricca, non saprei spiegarlo a nessuno”.
Qui di amore non ce n’è molto, eppure… “Le materie prime di cui è fatta la vita sono dappertutto le stesse”.
Ma Etty è assolutamente consapevole di ciò che sta vivendo: “Eccomi dunque nell’inferno”, scrive al suo arrivo ad Auschwitz. “Io non posso fare nulla, non l’ho mai potuto, posso solo prendere le cose su di me e soffrire. In questo sta la mia forza ed è una grande forza – ma per me stessa non per gli altri. Io mi sento all’altezza del mio destino, ma non mi sento in grado di sopportare quello dei miei genitori”.
Questa “positività”, questa forza di cui parla Etty, non è innata, ma è frutto di un lavoro faticoso su se stessa, come donna, contro i demoni che la abitano e contro cui è costretta a lottare, contro sentimenti cui non vuole soggiacere.
Per poter conquistare la vista di quello spicchio di cielo, Etty affronta un faticoso percorso interiore, di riconoscimento dei mostri, delle contraddizioni che la abitano, imparando ad accettare l’irrealizzato, la vergogna, il tradimento dell’ideale di sé, educandosi alla resistenza, alla forza del patire, attraverso l’esercizio della levità, assumendosi la responsabilità dell’esserci. Spesso temerà di non farcela, più volte nel Diario racconterà di dover “ricominciare tutto da capo”.
La sua storia individuale si intreccia e sovrappone al piano della storia collettiva: il processo di liberazione non riguarda solo la sua condizione di ebrea in quel preciso momento storico, ma è la conquista di un nuovo approccio all’esistenza in assoluto.
Liberarsi dall’esigenza del possesso, della gelosia, del dominio, che prova come donna, equivale a liberarsi dai sentimenti di vendetta, di odio che devastano la storia dell’umanità: “so che chi odia ha fondati motivi per farlo. Ma perché dovremmo scegliere la strada più corta e a buon mercato? Laggiù ho potuto toccare con mano come ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo renda ancor più inospitale”,
Con lei ci addoloriamo per il male compiuto dai nazisti, un male di cui lei stessa è vittima, ma è un male che ci riguarda tutti, direttamente, come esseri umani.
“Il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi, continuavo a predicare: e non vedo nessun’altra soluzione, veramente non ne vedo nessun’altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza prima aver fatto la nostra parte dentro di noi. È l’unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove”,
“se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati ad ogni costo e non un nuovo senso delle cose, allora non basterà”, “chi ha perduto la speranza di esser felice, non può pensare alla felicità degli altri e non può neppure interessarsi dell’altrui felicità” (2).
“La strada più corta e a buon mercato”, questo è dunque l’odio secondo Etty.
Un sentimento sin troppo facile da praticare. Un sentimento semplice, indegno, “banale”.
Ed è altresì un aspetto inquietante, poiché costringe a concepire il male non come qualcosa di mostruoso ed eccezionale, bensì come qualcosa di vicino, che può nascere anche dentro uomini apparentemente “normali”, anche dentro di noi, quando incapaci di comprendere l’altro, di vedere con gli occhi dell’altro.
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Etty Hillesum
“Quel che ora penso veramente è che il male non è mai "radicale", ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale.”
Così risponde Hannah Arendt, più di dieci anni dopo Etty, dopo aver assistito, inviata dal New Yorker, ad ognuna delle centoventi udienze che porteranno alla condanna a morte per impiccagione del gerarca nazista Otto Adolf Eichmann, tra i maggiori responsabili della messa in atto della cosiddetta “Soluzione Finale”, di cui racconterà in La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, del 1964.
Ed è una conclusione inaspettata, che ribalta la sua precedente visione, esposta in Le origini del totalitarismo, del 1951, in cui riprende e sostiene il concetto kantiano della “radicalità del male”, inteso come male assoluto, in grado di sottrarsi sia al perdono, sia alla punizione, il male inaccettabile che riduce gli uomini a esseri superflui perché colpisce le radici, ovvero il pensiero e l’azione spontanea, trasformandoli in un fascio di azioni programmabili: “niente come i campi di concentramento ricorda tanto le immagini medievali dell’inferno”.
Hannah Arendt, come molti altri, tentò di “penetrare il mistero che forse più di ogni altro tiene svegli i filosofi, cioè il pensiero dell’‘unde malum’ (‘da dove viene il male’)” (3).
Aristotele sosteneva che “il male è qualcosa di inevitabile” ed è “infinito”, “si può sbagliare in molti modi (infatti il male ha la caratteristica dell’illimitato, come avevano intuito i Pitagorici)”, “un essere umano malvagio potrebbe fare infinitamente più male di una bestia” (4).
“Il male non è aggiunta accidentale alla storia dell’umanità, di cui si potrebbe sbarazzare facilmente: esso è legato alla nostra stessa identità; per eliminarlo bisognerebbe cambiare specie”, aggiunge Tzvetan Todorov (5).
“Bene e male – come parole assolute – sono forse le parole più note tra gli esseri umani”, “che possono essere capite solo se tenute insieme. Divise l’una dall’altra, perdono la forza originaria che le caratterizza” (6).
Dinanzi alla figura di Eichmann “rinchiuso nella gabbia di vetro costruita appositamente per proteggerlo: un uomo di mezza età, di statura media, magro, con un’incipiente calvizie, dentatura irregolare e occhi miopi, il quale per tutta la durata del processo se ne starà con lo scarno collo incurvato sul banco (neppure una volta si volgerà a guardare il pubblico) e disperatamente cercherà (riuscendovi quasi sempre) di non perdere l’autocontrollo, malgrado il tic nervoso che gli muove le labbra e che certo lo affligge da molto tempo”,
Hannah Arendt si rende conto che la sua mostruosità consiste proprio nel non essere mostruoso, “né perverso, né sadico”, ma “spaventosamente normale”.
“Restai colpita dalla evidente superficialità del colpevole, superficialità che rendeva impossibile ricondurre l’incontestabile malvagità dei suoi atti ad un livello più profondo di cause o motivazioni. Gli atti erano mostruosi, ma l’attore – per lo meno l’attore tremendamente efficace che si trovava ora sul banco degli imputati – risultava quanto mai ordinario, mediocre, tutt’altro che demoniaco o mostruoso.”
Eichmann si presentò infatti al banco degli imputati con un tono dimesso, come un normalissimo impiegato, un burocrate che si difese sostenendo l’obbedienza all’ordine ricevuto, svolgendo semplicemente il suo compito, donandosi passivamente al servizio di un ingranaggio di morte.
Per questo il male banale diventa più pericoloso del male radicale, perché non richiede un pensiero consapevole e convinto per essere perpetrato, ma semplicemente cieca obbedienza, rinuncia al pensiero, alla morale: “l’assenza di pensiero non si identifica con la stupidità; si può incontrarla in persone di intelligenza elevata, e un cuore malvagio non ne costituisce la causa. È vero probabilmente il contrario: che la malvagità può essere causata da assenza di pensiero.” (7)
In quest’ottica, un individuo come Eichmann altro non è che una parte del meccanismo, di cui non è vittima, ma complice.
“Il problema della coscienza di Adolf Eichmann, che è notoriamente complesso ma nient’affatto unico, non può essere paragonata a quello della coscienza dei generali tedeschi, uno dei quali (Alfred Jodl, ndr), quando a Norimberga gli chiesero ‘Com’è possibile che tutti voi rispettabili generali abbiate seguitato a servire un assassino con tanta fedeltà?’ Rispose che non toccava a un soldato ergersi a giudice del suo comandante supremo: ‘Questo tocca alla storia, o a Dio in cielo.’”
Diverso ancora il caso di Claude Eatherlay, il pilota e meteorologo statunitense che diede il via libera allo sgancio della bomba atomica che distrusse Hiroshima, il quale, quando comprese di essersi macchiato di uno dei crimini più orrendi della storia dell’umanità, cadde in una profonda depressione, tentando più volte il suicidio.
Eichmann, invece, fino all’istante precedente la sua impiccagione, si sentì deresponsabilizzato, un anonimo burocrate che aveva svolto il proprio lavoro, distaccato, incosciente della malvagità dei suoi atti, inabile a pensare dal punto di vista di qualcun altro.
“Andò alla forca con gran dignità. Aveva chiesto una bottiglia di vino rosso e ne aveva bevuto metà. Rifiutò l’assistenza del pastore protestante, reverendo William Hull, che si era offerto di leggergli la Bibbia: ormai gli restavano appena due ore di vita, e perciò non aveva ‘tempo da perdere’. Percorse i cinquanta metri dalla sua cella alla stanza dell’esecuzione calmo e a testa alta, con le mani legate dietro alla schiena. Quando le guardie gli legarono le caviglie e le ginocchia, chiese che non stringessero troppo le funi, in modo da poter restare in piedi. “Non ce n’è bisogno”, disse quando gli offersero il cappuccio nero. Era completamente padrone di sé, anzi qualcosa di più: era completamente se stesso. Nulla lo dimostra meglio della grottesca insulsaggine delle sue ultime parole. Cominciò col dire di essere un Gottgläubiger, il termine nazista per indicare chi non segue la religione cristiana e non crede alla vita dopo la morte. Ma poi aggiunse: ‘Tra breve, signori, ci rivedremo. Questo è il destino di tutti gli uomini. Viva la Germania, viva l’Argentina, viva l’Austria. Non le dimenticherò’. Di fronte alla morte aveva trovato la bella frase da usare per l’orazione funebre. Sotto la forca la memoria gli giocò l’ultimo scherzo: egli si sentì ‘esaltato’ dimenticando che quello era il suo funerale. Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato – la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male.” (8)
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Hannah Arendt
Hannah Arendt ed Etty Hillesum sono state due figure molto controverse, il loro concetto di banalità del male fu oggetto di molte critiche.
Pur non avendo mai minimizzato la colpevolezza di Eichmann, descrivendolo sempre come un criminale di guerra, riconoscendo il vero orrore della sua malvagità, Hannah Arendt fu contestata per aver focalizzato l’attenzione sull’analisi della figura “apparentemente normale” del genocida, anziché concentrarsi sulla radicale malvagità delle sue azioni, sul risultato delle stesse, e dunque per averne in qualche modo sminuito la gravità, sgonfiato la potenza della condanna.
Più recentemente alcuni critici hanno anche sollevato dubbi su alcuni errori storiografici commessi a loro avviso dalla Arendt, ovvero sulla vera natura di Eichmann, forse non così inconsapevole della propria malvagità: secondo loro quella del semplice burocrate era in realtà la maschera di un "guerriero fanatico".
Alla stessa maniera, si noti il minor impatto del Diario e delle Lettere di Etty Hillesum, rispetto a quello di altre narrazioni più nette della Shoah (come ad esempio il Diario di Anna Frank), in cui viene tracciata una linea di demarcazione netta e precisa tra bene e male, in cui il male, l’orrore del nazismo, è in assoluto altro da noi.
Etty Hillesum, ancor prima di Hannah Arendt, aveva compreso che il male non è qualcosa di lontano e di mostruoso, ma qualcosa che può nascere anche dentro di noi.
E questo pensiero, all’indomani della guerra, non poteva essere accettato (il Diario e le Lettere di Etty furono pubblicati a quarant’anni di distanza dalla fine della Shoah), non si poteva neanche immaginare una concezione che in qualche modo rischiasse di “alleggerire” la condanna a quell’inconcepibile atrocità.
Ma Etty invita a rintracciare le radici del male dentro di noi non dopo la fine della guerra, non da una posizione non implicata o distante, bensì durante la Shoah, direttamente dal campo di concentramento in cui era stata deportata e in cui morirà a 29 anni.
Il Diario e le Lettere di Etty Hillesum sono denuncia e testimonianza.
Partire da sé stessi. Questa è la rivoluzione del suo pensiero.
Etty riflette sul proprio coinvolgimento nell’odio e rifiuta l’odio indifferenziato verso un’intera categoria di persone, lo ritiene una vera “malattia dell’anima”: “se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero”.
Contro il male e l’odio, lei non si limita a “resistere”, ma propone e pratica l’amore e la compassione (sentimenti che tolgono spazio all’io per far posto all’altro), in contrapposizione all’odio e alla violenza (sentimenti incentrati sull’io) di cui i nazisti sono espressione: “ad ogni nuovo crimine e orrore dovremmo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi”.
Etty accetta la compresenza del bene e del male dentro di sé e questa consapevolezza le consente di scegliere, di rifiutare l’odio.
Questa concezione fu ben poco compresa e molto criticata, interpretata come una pericolosa passività e rassegnazione.
In realtà Etty compì atti di vera resistenza al nazismo, scelse di non collaborare mai e in alcun modo, neanche per salvare se stessa. Denunciò nelle sue lettere le atrocità del campo di smistamento di Westerbrock, rifiutandosi di poterne uscire al prezzo della vita di qualcun altro, pronunciò un duro giudizio politico sul Consiglio ebraico di Amsterdam, nato per aiutare gli ebrei e divenuto uno strumento nelle mani dei nazisti, si mostrò sempre forte e sicura dinanzi ad ogni umiliazione che la Gestapo tentò di infliggerle: “per umiliare qualcuno si deve essere in due: colui che umilia e colui che è umiliato e soprattutto che si lascia umiliare: se manca il secondo, e cioè se la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria.”
La sua può essere definita una “resistenza esistenziale”, “un’autorità femminile disarmata”, che si oppone simbolicamente e concretamente, attraverso l’aiuto prestato agli altri al campo di Westerbrock, al culto virile delle armi e della guerra.
Etty era aperta ad ogni forma di spiritualità, dall’ebraismo al cristianesimo, all’islam, fino alle filosofie orientali. La fede in Dio la sosterrà fino alla fine. Di fronte al silenzio di Dio al cospetto di Auschwitz, Etty sceglie di “aiutare Dio” - questa la formula straordinaria che utilizza - impedisce cioè che Dio la abbandoni, perché è lei a non abbandonare Dio.
Dio non è responsabile del male prodotto dagli uomini, gli uomini ne sono completamente responsabili. Aiutare Dio significa aiutarlo a non assentarsi dal cuore degli uomini, per Etty significa aiutare il prossimo, perché Dio abita lì, nella fragilità umana esposta alla forza.
Custodendo Dio dentro di sé, lo salverà, oltre la catastrofe dell’umanità.
Tornando al nostro Charlie, annegato nella corazza di carne che lo sta uccidendo, mentre si avvicina alla fine, si preoccupa di aver fatto “almeno una cosa buona nella vita”: ha accumulato tutti i suoi averi, rinunciando persino alle cure, per lasciarli in eredità alla figlia che aveva abbandonato da piccola, affinché da grande possa avere, almeno lei, “una vita meravigliosa”. Non comprende però che l’assenza non può essere sanata, che il tremendo prodotto di quel lungo vuoto non è più recuperabile, che, anche se inconsapevolmente o non intenzionalmente, persino il cuore più buono può fare del male.
Purtroppo spesso le persone sono incapaci di amare. Poche persone sono davvero meravigliose.
Etty Hillesum lo era. Per la consapevolezza, per aver faticosamente fatto in modo di diventarlo, accettando la possibilità di avere il male dentro di sé e scegliendo di combatterlo in ogni modo.
A mano a mano che si avvicina la fine, la sua voce diventa sempre più limpida e sicura. Sul diario aveva annotato: “‘Temprato’: distinguerlo da ‘indurito’”.
La sua vita è la dimostrazione di questa differenza.
1. The Whale, film di Darren Aronofsky, 2022
2. Tutti gli estratti non altrimenti identificati sono tratti da Diario 1941-1943 e Lettere 1942-1943, Etty Hillesum
3. Arianna Fermani, da Aristotele e l’infinità del male. Patimenti, vizi e debolezze degli esseri umani, Morcelliana, Brescia, 2019
4. Aristotele, da Etica Nicomachea II
5. Tzvetan Todorov, da Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano 2001
6. Carmelo Vigna – Susy Zanardo, da Etica di frontiera. Nuove forme del bene e del male, Vita e Pensiero, Milano, 2008
8. Tutti gli estratti non altrimenti identificati sono tratti da La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Hannah Arendt, 1964
Riferimenti essenziali (9):
The Whale: The Whale è un film del 2022 diretto da Darren Aronofsky.
La pellicola è l'adattamento cinematografico dell'omonima opera teatrale del 2012 scritta da Samuel D. Hunter, autore anche della sceneggiatura. Per la sua interpretazione del protagonista, Brendan Fraser ha vinto l'Oscar al miglior attore.
Etty Hillesum: Esther Hillesum, detta Etty (Middelburg, 15 gennaio 1914 – Auschwitz, 30 novembre 1943), è stata una scrittrice olandese ebrea vittima dell'Olocausto.
Si laureò in giurisprudenza all'Università di Amsterdam, all'inizio della guerra si interessò della psicologia analitica junghiana, grazie al lavoro dello psico-chirologo Julius Spier, di cui divenne collaboratrice e amante. Fra il 1941 e il 1943 tenne un diario e scrisse molte lettere, che, solo nel 1981 saranno pubblicati, dapprima in Olanda e poi in altri paesi. Nel 1942, lavorando come dattilografa presso una sezione del Consiglio Ebraico, ebbe anche la possibilità di salvarsi, ma decise, forte delle sue convinzioni umane e religiose, di condividere la sorte del suo popolo. Lavorò in seguito nel campo di smistamento di Westerbork come assistente sociale. Il 7 settembre 1943 tutta la famiglia, tranne il fratello Jaap, fu deportata nel campo di sterminio di Auschwitz. Etty morirà il 30 novembre 1943, a 29 anni.
Hannah Arendt: Hannah Arendt (Hannover, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975) è stata una storica, filosofa e politologa ebrea tedesca naturalizzata statunitense, una dei più influenti teorici politici del XX secolo.
Dopo la pubblicazione nel 1951 de Le origini del totalitarismo, in cui si affermò la sua reputazione di teorica politica, altri cospicui lavori seguirono: Vita activa. La condizione umana nel 1958, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme nel 1963, L'umanità in tempi bui nel 1968.
Nel gennaio 1933, al momento della presa del potere di Adolf Hitler in Germania, i diritti civili degli ebrei furono sospesi. Quindi Arendt si vide negata la possibilità di ottenere l'abilitazione all'insegnamento nelle Università tedesche, per via delle leggi razziali naziste.
Privata della cittadinanza tedesca nel 1937, quando la Germania invase la Francia, Arendt fu detenuta nelle carceri francesi come apolide illegale.
Nel 1940 sposò il poeta e filosofo tedesco Heinrich Blücher, con cui nel 1941 fuggì negli Stati Uniti d'America. Divenne attivista nella comunità ebraica tedesca di New York, insegnò in diverse Università americane. Morì improvvisamente a 69 anni, di attacco di cuore, nel 1975, lasciando incompiuto il suo ultimo lavoro, La vita della mente.
9. Fonte: Wikipedia
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