CERCANDO LE CHIAVI - Anna Segre - Giochi

 

Anna Segre

Ci provarono, non si può negare, a regalarmi bambolotti e orpelli vari a futura ispirazione materna. Ma io ero una bambina affettuosa, accudente e cavaliera, mi frapponevo tra l’amichetta e la minaccia come una sol donna, amavo senza mezze misure l’altra, e, riconoscendone le fragilità, mi sarei buttata nei rovi pur di risparmiarle una difficoltà, per esempio caderci lei, nei rovi.

Le bambole non significavano nulla, dal punto di vista affettivo, per me. Io amavo l’amica viva.

E insomma, il gioco è sempre stato solo uno: creare un noi affettivo rispetto al mondo. Il mondo, si fa per dire, i padri, dovrei specificare. Noi. E loro.

Quindi Ciccio bello chissene, invece animali di pelouche sì e anche piccole scatole piene di oggetti indispensabili: cuscinetti a sfera, piccole molle di penne rotte, le mini seghe per aprire le fiale da iniezione, fiammiferi di cera, un coltello senza manico (sicché nessuna potesse mai averlo dalla parte sua) che ci allenavamo a lanciare il più precisamente possibile ed eravamo anche molto brave, se posso vantarmi un attimo. Insomma, avevamo presente il concetto di kit di sopravvivenza.

Ci provarono, sì, ad allinearmi con giocattoli di ruolo, ma blandamente, perché per fortuna erano distratti dal loro amore, e si fecero sfuggire lego e puzzle e chiodini colorati, scatole di pennarelli da sniffare e domino di avorio, però questo era ereditato dalla nonna come anche le carte memory coi massimi capolavori dell’arte da appaiare. Ci esercitavamo a essere intelligenti.

I giochi sono le prove generali, la rappresentazione di quello che poi. Forse loro mi volevano brava a scuola, utile a casa e uguale a non so chi. Invece io volevo essere libera.

A 4 anni, bloccata a letto per un incidente d’auto, imparai a leggere. Forse tutto quel gesso mi diede l’ispirazione e l’aspirazione forti verso la ‘libertà’. Astrid Lindgren era la mia Bibbia. Nel senso che ne recitavo interi pezzi a memoria e ne traevo massime di comportamento assolute. Pippi Calzelunghe, Kalle Blonkwist, Emil di Lonneberga erano i miei eroi. Facciamo nomi e cognomi. E da essi preghiere: signore, dammi una forza erculea e un baule pieno di dobloni d’oro, ti prego con tutto il cuore, dammi un cavallo una scimmia e la libertà. E con la mia amica geniale (perché ognuno qui probabilmente ha avuto un’amica geniale. Io sicuramente sì) il vero teatro di realtà era: fuggire col fagotto appeso al bastone come Kalle Blonkwist e andare per il mondo vagabonde, insomma, volevamo diventare due felici e realizzate senza tetto.

E se i giochi sono le prove generali, quel senso di estraneità, di non appartenenza assoluti che avevo da bambina, in cosa si traducono? Non lo so. Ma di certo non possono essere scomparsi, ce li ho qui, come una brace d’avvertimento, come una politica aziendale, un marchio: io sono quel tipo di persona. O meglio, come direbbe Montale, ciò che non sono, ciò che non voglio.


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