IL DIARIO DI DAFNE - Ester Guglielmino - Il dono

 

Ester Guglielmino


Oggi ho comprato un abete 

- O Tannenbaum - l’albero di Natale,

verde come una tartaruga, foresta

di gomma, resina e trementina.

Amore mio, vigliacco, assenteista,

sola nella nostra stanza non ero un’ospite. 

[...]


(da 17 dicembre di Anne Sexton, in Poesie d’amore, a cura di Rosaria Lo Russo, Le Lettere, 1996.)


Si sa che ogni mese dell’anno porta con sé un carico di colori, profumi, suggestioni; e il principio sembra ancora più valido per dicembre, che è sempre il mese del rosso intenso, del profumo selvatico dell’agrifoglio, dalla suggestione trepidante dell’attesa. Ma, in poesia, dicembre resta per me il mese di Anne Sexton e dei suoi Diciotto giorni senza te (Eighteen Days without You) - poemetto quasi a sé stante, inserito all’interno della raccolta Poesie d’amore (Love poems) - a scandire un appassionato calendario del non-avvento che scivola pian piano dalla celebrazione profana e liberatoria del corpo fino al disvelamento mistico della sua sacralità. 


Anne Sexton


1 dicembre, 2 dicembre, 3 dicembre, 4 dicembre, 5 dicembre, 6 dicembre, 7 dicembre, 8 dicembre, 9 dicembre, 10 dicembre, 11 dicembre, 12 dicembre, 13 dicembre, 14 dicembre, 15 dicembre, 16 dicembre, 17 dicembre, 18 dicembre... diciotto componimenti che rappresentano il progressivo compiersi di un abbandono e che si portano addosso lo stigma dell’attesa, della delusione, del tradimento d’ogni falsa aspettativa. Poesie d’amore uscì nel 1969 e la Sexton - ormai poeta/performer affermata e famosa - affidava a questa raccolta la celebrazione della sua raggiunta maturità stilistica e tematica. Le sue performance, pagate con lautissimi compensi e legate a precisi rituali (vestito rosso, ritardo di rito, scarpe scagliate via dal palco pochi minuti dopo, sigaretta alle labbra, stato alcolemico avanzato) trovarono in queste poesie la cura impeccabile del verso, non solo sul piano stilistico ma anche su quello sonoro; una cura ottenuta attraverso una spasmodica e incessante opera di revisione e grazie a un orecchio attentissimo all’ascolto. Domina, tra queste pagine, il verso libero che ricompatta la sua struttura nell’andamento anaforico da filastrocca, nell’associazione accorta di assonanze e consonanze, nell’uso magico della parola/immagine.  Molte delle poesie di Love poems nascevano da un’insana passione, quella verso Ollie Zweizung (il doctor-daddy, come amava chiamarlo lei) ovvero lo psicanalista subentrato al dottor Martin Orne, il terapeuta che ab origine aveva spinto la ventinovenne Anne alla poetry therapy, suggerendole di tradurre nell’energia positiva della scrittura poetica quel senso di inadeguatezza e inabilità che l’aveva fatta internare a Westwood Lodge. Era stato grazie a Orne, insomma, se la Sexton era riuscita a consumare in maniera incruenta la morte dell’insoddisfatta casalinga alto-borghese del New England a favore della nascita - salvifica e inattesa - della donna scrittrice di successo. Ma di Orne, Zweizung non possedeva evidentemente l’approccio professionale, se aveva avviato con la bella e irrequieta paziente una relazione sessuale, pare addirittura a pagamento. Ora, chiunque abbia avuto a che fare con Anne Sexton sa molto bene quale complessità si nasconda dietro al personaggio e quanto necessario sia scavare nella bambina-figlia Anne per capire il dolore devastante della donna-poeta Sexton.

Anne Gray Harvey era nata il 9 novembre 1928 da una famiglia tanto benestante quanto perbenista; il padre Ralph era un imprenditore tessile, arricchitosi durante la seconda guerra mondiale, cultore ineccepibile della forma ma, in realtà, alcolizzato e facilmente irritabile, specie verso l’ultima inquieta figlioletta, considerata più motivo di disturbo che di gioia; anche la madre Mary Gray - talento letterario sprecato in nome di un solido matrimonio - era tanto dedita al marito quanto fredda e distaccata nei suoi confronti, pronta ad assumere atteggiamenti di totale noncuranza o, al contrario, violenti pur di farla stare al suo posto. Anne divenne presto affetta da isteria e bipolarismo o forse era solo vittima di un vertiginoso vuoto d’amore. Unico argine, l’affetto profondo per la vecchia zia zitella Nana, sua anima gemella e, quasi per una fosca premonizione, destinata a essere internata in manicomio dove, ormai incapace di riconoscere la nipote, trovò la morte. 

Giovane


Mille porte fa
quando ero una ragazzina solitaria
in un’enorme casa con quattro
garage e se ben ricordo
era estate,
di notte mi sdraiavo in giardino,
il trifoglio raggrinzito sotto di me,
le sagge stelle distese sopra di me,
la finestra di mia madre un imbuto
da cui usciva un calore giallo,
la finestra di mio padre, socchiusa,
un occhio dove passa chi dorme,
e le assi della casa
erano lisce e bianche come cera
e probabilmente milioni di foglie
navigavano come vele sui loro strani gambi
mentre i grilli ticchettavano all’unisono
e io, nel mio corpo nuovo di zecca,
non ancora di donna,
facevo domande alle stelle
e credevo che Dio potesse veramente vedere
il calore e la luce colorata,
i gomiti, le ginocchia, i sogni, la buonanotte.


(Anne Sexton, La zavorra dell’eterno, a cura di Cristina Gamberi, Crocetti Editore, 2016)


Ed è in questo corpo nuovo di zecca a cui porre domande che si coglie la narrazione disperata di una frattura aperta, di una ferita destinata ad approfondirsi nel tempo e a fagocitare la protagonista stessa della storia, che è storia di un trauma e, assieme, dimostrazione di come la poesia possa diventare miracoloso strumento di compensazione. All’incapacità di riconoscersi in una identità che soddisfacesse le proprie aspettative, Anne sostituì la sua incredibile capacità di generare maschere, che erano a un tempo infingimenti e proiezioni vere; una folla di personaggi a cui appassionarsi in maniera totale e provvisoria. Madre/moglie perfetta, casalinga rivoluzionaria, scrittrice sovversiva, strega/vamp/ performer mangia-uomini; eppure, raschiando il fondo, si coglie - lacerante - l’incapacità di fissarsi in un’essenza soddisfacente e risolutiva. La poesia vertiginosa e fisica della Sexton ci insegna quanto possa essere devastante il vuoto dell’amore, quanto possa scavarti dentro fino a farti perdere il fiato, quanto possa ingurgitare il mondo esterno e risputarlo poi come preziosa bava di sopravvivenza. Il corpo chiede, si illude, permea di sé ogni parola, diventa materia verbale, si sveste del vuoto che l’assale e si traveste di maschere nuove che possano confortare ogni mancanza, ogni possibile frustrazione. L’io lirico, intanto, cede il posto all’io transpersonale dell’autorappresentazione (Lo Russo).


2 dicembre


Stanotte ho dormito

all’ombra di un uccello
sognando un picchio murato al panìco,
la spina rattratta, rattrappite le dita,
attendeva una morte lenta
nell’odiosa neve di dicembre.
Mia madre morì alle luci della ribalta,
mia madre che sbatte la porta quando la cerco,
e tu alla porta ieri,
tu alla perdita, sbiancato,
dicevi cose che dicono gli amanti.

Ma a me giungevi in sogno sonnambulo,
uno bizzarro convitato di pietra

dall’immoto piumaggio senza muta,
la bocca cucita come un orlo,
un manichino da sarto, senza gambe
e cavo in punto vita, mio vecchio puritano.
Eri tutto mussola color crema, sbiadita
e ti sistemavo in sei stanze per ripararti
le porte e i fili son saltati e hai parlato,
prorompendo nel grido lacero
che mi ha svegliato.

Allora ho preso una pasticca per riaddormentarmi
e fui un criminale in isolamento,

una zoppa, una ladra
che cavò agli uomini occhi rubini.
Una-gamba-sola divenni e tu
mi trascinavi via appesa al tuo uncino nazi.
Ero il pezzo di carne marcia che appresso ti dovevi portare.
Ero livida. Non potevi mancare.
Sognare porta alla mala fortuna
e io ne avevo ordinata una.


(da Poesie d’amore, cit.)


Al centro di Poesie d’amore sta la celebrazione del corpo e della corporeità femminile; basta pensare a poesie di rottura come la Ballata della masturbatrice solitaria per capire la portata dell’afflato di liberazione sessuale di cui i versi della Sexton si fecero portavoce presso la perbenista middle-classe americana, cui lei stessa apparteneva e di cui era, in un primo momento, rimasta vittima inconsapevole. Ma dietro queste poesie c’è molto di più di una istanza di emancipazione. Zweizung rappresenta per la Sexton anche l’amante-padre, secondo la più ricorrente delle sue ossessioni. Ecco cosa può la poesia, può sprofondare nel rimosso innominabile e innominato, può farlo risalire a galla e rivestirlo di parvenze accettabili, renderlo pronto a sostenere il teatro della vita. Al centro c’è un corpo che vuole essere amato, c’è un’attesa che auspica un’epifania, ma c’è anche il progressivo dissolvimento delle figure maschili a cui si era chiesto di ancorare il proprio amore, in un percorso a ritroso che presto diventa perdita e disillusione.


1 dicembre

Al bacio d’addio
eri un poco accigliato.
Ora le luci di Cristo
scintillano sulla città.
Le spighe nel campo sono spezzate,
spezzate e imbrunite.
A fine d’anno lo stagno
abbassa la palpebra grigia.
Scintillano sulla città
le luci di Cristo.

Verde-gatto il ghiaccio s’adagia
sul prato di fronte a casa.
La cicuta è la sola cosa
giovane che resta. Te ne sei andato.
Stanotte sotto le coperte ho svernato
senza dormire finché venne l’alba
come un imbrunire e foglie di quercia
frusciavano come soldi, ostinate.
La cicuta è la sola cosa
giovane che resta. Te ne sei andato.

(da Poesie d’amore, cit.)


È da questo momento in poi che si profila - necessaria e definitiva - la possibilità di una trasfigurazione risolutrice: se le figure maschili sono solo capaci di suscitare delusione e disattesa delle aspettative ecco che l’amante-padre può sconfinare nell’ideale e assimilarsi addirittura a Dio. 11 dicembre è la narrazione di un amplesso che allude a un coinvolgimento così assoluto da superare i limiti dell’umano, e punta infatti - come spesso succede nella Sexton - su un lessico di chiara ridondanza simbolica (la lingua oceano, la coppa di sangue, il fiume Possesso) per arrivare, infine, a una congiunzione mistica che permette di avanzare - perentoria - una speranza enorme: Nessuno è solo


11 dicembre

Poi a letto penso a te,
la tua lingua metà oceano, metà cioccolata,
alle case dove entri con disinvoltura,
ai tuoi capelli di lana d’acciaio,
alle tue mani ostinate e
come rosicchiamo la barriera perché siamo due.

Come vieni e afferri la coppa di sangue,
mi ricompatti e bevi la mia acqua salata.
Siamo nudi. Ci siamo denudati fino all’osso
e insieme nuotando risaliamo
il fiume, l’identico fiume chiamato Possesso
e si profonda. Nessuno è solo.

(da Poesie d’amore, cit.)

Nondimeno, è nella risultante di questa unione che si misura la portata ‘follemente’ innovativa del pensiero della Sexton, Non è un Figlio quello da cui si attende la Redenzione ma una Figlia, una “Ragazza Cristica” - come la definisce la Lo Russo - capace di sovvertire i ruoli tradizionali e di espiare le colpe del genere cui appartiene. Nello stesso anno di pubblicazione di Love poems, la Sexton concludeva, non a caso, il dramma Mercy Street, iniziato nel ’61, in cui portava in scena la sintesi performativa del suo trauma familiare e personale, filtrato da una lunga ricerca introspettiva e giunto a una tanto tragica quanto liberatoria soluzione. Nell’ultima scena (the “remembrance scene”) si consuma, infatti, l’episodio di seduzione tra la Figlia protagonista Daisy (alter-ego della poeta) e il Padre Ace, al cospetto di una testimone, Zia Amy (adombrante zia Nana), che per lo smarrimento impazzisce. Daisy allora, per scontare la duplice colpa dell’incesto verso il Padre e della follia dell’amata Amy, si suicida; ma, in questo percorso sacrificale dal tragico approdo, Daisy cerca pure conforto - e lo trova - nell’identificazione con Cristo, di cui ripercorre le orme attraverso l’espiazione dell’errore e il dono della sua stessa vita. Ne nascerà un monologo che, dopo infinite stesure, diventerà una delle poesie più intense della Sexton - in Vivi o muori (Live or Die) - col titolo Frequentando gli Angeli (Consorting with Angels).


Frequentando gli angeli (estratti)


Ero stanca di essere donna,

stanca di pentole e cucchiai,

stanca di bocca e seni,

stanca di cosmetici e sete.

C’erano ancora uomini alla mia mensa,

seduti in cerchio attorno alla coppa dell’offerta.

[...]

Poi fui messa in catene,

e persi il buon sesso e l’aspetto finale.

Avevo Adamo alla mia sinistra,

ed Eva alla mia destra

entrambi in contrasto con il mondo razionale.

Ci stringemmo le braccia

e cavalcammo sotto il sole.

Non ero più donna, né nessun’altra cosa.

[...]

Non ho né braccia né gambe.

Sono in un’unica pelle

come un pesce.

Non sono una donna più

di quanto Gesù fosse un uomo.


(Anne Sexton, Poesie su Dio, a cura di Rosaria Lo Russo, Le Lettere, 2003.)


Insomma, il peccato originale di restare confinati nella prigione della fisicità - colpa a cui la società ha da sempre condannato le donne e che, per la Sexton, resta obolo di sofferenza di tutta una vita - può essere compensato solo con l’annullamento consapevole della stessa. Compiuto il suicidio, Daisy-Anne-Ragazza Cristica ha finalmente espiato; valicata ogni differenza di genere, ha - da sola - sconfitto e redento la sua ancestrale caduta. Resta, ora, solo la Parola, che è Verbum - termine latino di ‘genere neutro’ - e che può narrare a tutti, senza distinzione, la sacralità eterna e multiforme dell’amore.


Anne Sexton reads "Her Kind" (1966)


Riferimenti bibliografici:

Anne Sexton, Poesie d’amore, a cura di e tradotta da Rosaria Lo Russo, Le Lettere, 1996.

Anne Sexton, Poesie su Dio, a cura di Rosaria Lo Russo, Le Lettere, 2003.


Anne Sexton, La zavorra dell’eterno, a cura di e tradotta da Cristina Gamberi, Crocetti Editore, 2016

Anne Sexton, Il libro della follia, a cura di e tradotta da Rosaria Lo Russo, La nave di Teseo, 2021

Anne Sexton, Trasformazioni, a cura di e tradotta da Rosaria Lo Russo, La nave di Teseo, 2023

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