POESIA ALL’OPERA – Stefania Giammillaro – “Ah, bravo Figaro! Bravo, bravissimo!” – Il mito del personaggio poetico

 

Stefania Giammillaro

Largo al factotum della città.

Presto a bottega che l'alba è già.
Ah, che bel vivere, che bel piacere, che bel piacere
per un barbiere di qualità, di qualità!

Oh, bravo Figaro!
Bravo, bravissimo! Bravo!
Fortunatissimo per verità! Bravo!
Fortunatissimo per verità, fortunatissimo per verità!
Pronto a far tutto,
la notte e il giorno
sempre d'intorno in giro sta.
[…]

Tutti mi chiedono, tutti mi vogliono,
donne, ragazzi, vecchi, fanciulle:
Qua la parrucca... Presto la barba...
Qua la sanguigna...
Presto il biglietto...
tutti mi chiedono, tutti mi vogliono! Qua la parrucca, presto la barba,
Presto il biglietto, ehi!

Figaro! Figaro! Figaro!




Ecco a voi "Largo al factotum", l’aria più boriosa di tutti i tempi, tratta dal Barbiere di Siviglia, nota opera buffa di Gioacchino Rossini, articolata in due atti, su libretto di Cesare Sterbini, ispirata  alla omonima commedia francese di Pierre Beaumarchais del 1775 e commissionata da Francesco Sforza Cesarini, impresario del teatro di patrocinio della sua famiglia, l'attuale Teatro Argentina di Roma.

Figaro è un famoso barbiere, o meglio, il factotum della città, è uno scaltro, anche fin troppo sicuro di sé, ma questa sua spocchiosa consapevolezza non confligge con la bontà del suo animo: Figaro e il maestro di musica Don Basilio aiuteranno il Conte d'Almaviva e l’allieva Rosina a coronare il loro sogno d’amore, schivando furbescamente le insidie orchestrate dal tutore di lei, Don Bartolo.

Ma quanto la bravura di un poeta coincide o dovrebbe coincidere con la purezza della sua anima? Quanto è utile, occorre che operi una tale aderenza sinonimica tra la piega artistica e la piega umana per un "poeta di qualità"? O, forse, diventa ragionevole pensare che dietro questa esigenza, questo “credo”, si celi, piuttosto, il bisogno di un’àncora di salvezza o saggezza, una via di fuga garantita dalle brutture della vita, che valga sempre come conforto, come porto sicuro senza eccezioni?

Significativo al riguardo, un noto proverbio indiano secondo cui: “se ami la poesia di un certo poeta, non andare mai a conoscere il poeta; resteresti deluso”.

Ebbene, alla domanda: “Perché sarebbe automatica la delusione?”

La risposta potrebbe individuarsi, a titolo esemplificativo, nelle aspettative aprioristicamente riposte in qualsiasi persona appartenente (volente/nolente) al nucleo poetico che, in quanto tale e poiché tale, assurgerà per definizione a “tessitore di trame tra sospiri ed intenti”.

La notizia, tuttavia, è che il poeta, quantomeno dal Decadentismo in poi, è uomo tra gli uomini; anzi, dovrebbe essere il primo a riconoscersi uomo tra gli uomini e, per l’effetto, costellato di pregi e difetti, errori, toppe, marce indietro e ripensamenti, deviazioni, furori, passioni, stravolgimenti, crisi, traumi, tumori, intestini tenui e crassi e non da ultimo pelle! Pelle che si taglia persino con la carta (sic!).

Ben diverso e degno di rilievo è, invece, il discorso, o più correttamente, la missione portata avanti da Umberto Saba (pseudonimo di Umberto Poli, Trieste, 9 marzo 1883 – Gorizia, 25 agosto 1957),  in merito alla cosiddétta onestà letteraria. Nel suo saggio Quello che resta da fare ai poeti, inviato nel febbraio del 1911 alla rivista fiorentina La Voce, pubblicato postumo nel 1959, è racchiuso il suo manifesto poetico, o meglio, l’atto di fede a ciò che, per l’intellettuale triestino, rappresenta la poesia come ricerca della verità, in particolare della verità interiore.

Nella contrapposizione tra il poeta “onestoAlessandro Manzoni, quale poeta sobrio che non inganna il lettore e non dice mai una parola che non corrisponda a ciò che pensa e sente, ed il poeta “disonestoGabriele D’Annunzio, poeta definito ubriaco, che esagera e finge passioni che non ha per ottenere una strofa più bella, Saba spiega la sua idea di onestà letteraria: “è prima un non sforzare mai l’ispirazione, poi non tentare per meschini motivi di ambizione o di successo, di farla parere più vasta e trascendente di quanto per avventura essa sia: è reazione, durante il lavoro, alla pigrizia intellettuale che impedisce allo scandaglio di toccare il fondo; reazione alla dolcezza di lasciarsi prender la mano dal ritmo, dalla rima, da quello che volgarmente si chiama la vena. Benché esser originali e ritrovar se stessi siano termini equivalenti, chi non riconosce in pratica che il primo è l’effetto e il secondo la causa; e parte non dal bisogno di riconoscersi ma da uno sfrenato desiderio di originalità, per cui non sa rassegnarsi, quando occorre, a dire anche quelli che gli altri hanno detto; non ritroverà mai la sua vera natura, non dirà mai alcunché di inaspettato. (…) solo quando i poeti, o meglio il maggior poeta di una generazione, avrà rinunciato alla degradante ambizione propria – purtroppo! – ai temperamenti lirici, e lavorerà con la scrupolosa onestà dei ricercatori del vero, si vedrà quello che non per forza d’inerzia, ma per necessità deve ancora essere significato in versi.(1)

Quello che resta da fare ai poeti - Umberto Saba


Si abdica, dunque, da una visione trascendente del poeta, calandolo nella sua dimensione di umana appartenenza cui, però, deve dar conto, senza scadere in lirismi o strofismi o eccedere in pavoneggiamenti, che esulano da qualsivoglia sentire reale, sincero, “onesto”, appunto.

Se, all’indomani dei due conflitti mondiali, il poeta non ha avuto altra scelta se non quella di optare per l’uomo, lasciando alla patina del Medioevo il suo trono tra gli dei, la sua cattedra da censore, allora, che abbia rispetto per questa scelta e onori il suo essere, il suo riconoscersi e accorgersi  “umano”.

L'invito di Saba “allo scandaglio” – senza – “toccare il fondo” mira alla poesia autentica senza necessità di vaneggiare o veleggiare per approdare al verso-scalpore; specie se tale ricerca spasmodica allontana dal lavoro su se stesso, dal "vero" se stesso.

Celebre al riguardo la sua “Amai” (Mediterranee, 1946)

Amai trite parole che non uno

osava. M'incantò la rima fiore

amore,

la più antica, difficile del mondo

 

Amai la verità che giace al fondo,

quasi un sogno obliato, che il dolore

riscopre amica. Con paura il cuore

le si accosta, che più non l'abbandona.

 

Amo te che mi ascolti e la mia buona

carta lasciata al fine del mio gioco.

 

Si recupera altrettanto densa la verità umana nei versi del poeta “autodidatta” Thierry Metz (Parigi, 10 giugno 1956).

Thierry Metz


Guarda:

l’uomo si è ritirato sotto a un albero

per danzare intorno a una foglia

per dire il più semplice

a chi non verrà

non sarà testimone –

fino al giorno della sua lingua

quando apparirà la casa

quando dunque ritornerà il testimone senza nome

a meditare la nudità di un volto

***

Tu sai che sempre

uno tra noi

si assenta

per abitare la luce

la lingua

poeta o manovale

convitati di una parola

illuminata

(Versi tratti da Sulla tavola inventata, trad. di R. Corsi, Edizioni degli Animali, 2018)

L’onestà di Saba, rielaborata in chiave attuale da Thierry Metz - intesa come fedeltà alla fatica del percorso che conduce alla luce del “sé”, con tutte le implicazioni correlate all’umano “Mito di Sisifo” - si traduce nella filosofa Simone Weil (Parigi, 3 febbraio 1909 – Ashford, 24 agosto 1943) in “responsabilità”.

Simone Adolphine Weil 


In una lettera del 1941, ai Chaiers du Sud, rivista della zona libera con cui collaborò poco prima e durante il suo esilio inglese, la teorica dell’empatia parla della “responsabilità della letteratura”, sostenendo che “gli scrittori non devono essere dei professori di morale, ma devono esprimere la condizione umana. E niente è così essenziale alla vita umana, per tutti gli uomini e in ogni istante, che il bene e il male. Quando la letteratura diventa per partito preso indifferente all’opposizione tra bene e male, essa tradisce la sua funzione e non può aspirare all’eccellenza. […] Il sentimento del bene e del male impregna tutti i suoi versi, come impregna tutte le opere non estranee al destino dell’uomo.” (2)

Bisogna sporcarsi le mani, dunque, avere il coraggio di immergersi nel fango, attraversarlo, per poter maneggiare degnamente l’arma più potente al mondo: la parola.

Insomma, temo non ci sia scampo per il popolo dei poeti/delle poete così come, più in generale, per quello degli scrittori/delle scrittrici: ci sia concesso giocare, ancora per poco, con figure retoriche e metrica, ma il lettore non è tipo da farsi prendere in giro e la figuretta, poi, la si paga a proprie spese.

Sì, proprio lui, il lettore: “Bravo, bravissimo! Bravo!/Fortunatissimo per verità! Bravo!


Riferimenti:

1. www.letteraturaitalia.it - La poesia onesta da Quello che resta da fare ai poeti di Umberto Saba

2. PANGEA - Rivista avventuriera di cultura ed idee - "Gli scrittori non sono professori di morale: esprimono la condizione umana”. Un saggio di Simone Weil



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