FLUSSI E VISIONI - Zeudi Zacconi –“L’abisso creativo della follia”
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Zeudi Zacconi |
«Vengo da una razza nota per la forza della fantasia e l’ardore della
passione. Mi hanno chiamato folle; ma non è ancora chiaro se la follia sia o
meno il grado più elevato dell’intelletto, se la maggior parte di ciò che è
glorioso, se tutto ciò che è profondo non nasca da una malattia della mente, da
stati di esaltazione della mente a spese dell’intelletto in generale. Coloro
che sognano di giorno sono consapevoli di molte cose che sfuggono a coloro che
sognano solo di notte».
(Edgar Allan Poe, Eleonora)
“I sogni, gli dei, gli amanti, i poeti, sono
folli.”
Fra questi i poeti sono i più arrischianti – ci ricorda Heidegger – facendo riferimento anche al poeta Rainer Maria Rilke, i più inoltrati negli scenari della follia.
Essi hanno il coraggio di guardare nell’abisso dell’oscurità, per rimettere
l’uomo sulle tracce degli dei fuggiti
nelle tenebre della notte del mondo,
affinché ritrovi la sua essenza e riabbracci la salvezza perduta.
Per creare qualcosa di “poetico” – vetta del
movimento ascensionale verso il Sé creativo – il poeta deve prima scendere
nelle profondità della propria follia e correre il rischio di non risalirne.
Deve avere l’audacia di una discesa senza
protezione. E solo dopo aver compiuto questo percorso bidirezionale può
farsi custode della soglia e
proteggere la sacralità della follia.
Si può sostenere dunque che la Poesia non è
affatto un’esperienza innocua, come non è innocua l’esperienza dell’Amore.
E tacciono,
perché sono abbattute
nelle loro
menti le barriere,
e le ore in
cui si potrebbe comprenderli
vengono e
vanno.
Spesso a
notte, affacciati alla finestra,
tutto
ritrova a un tratto il giusto senso.
La loro mano
poggia sul concreto
e il cuore è
alto e vorrebbe pregare,
e gli occhi
in pace guardano
nel recinto
ormai calmo l’insperato
giardino
tante volte sfigurato
che nel
riverbero di mondi ignoti
continua a
crescere e mai non si perde.
(Rainer Maria
Rilke, I folli)
A tu per tu con la propria parte irrazionale,
nella stanza degli orrori e delle meraviglie, dove il turbinio delle voci è
vortice e raffiche furiose, dove il tremendo e il sublime si annodano e si
avvinghiano a formulare irragionevoli ipotesi su destini di conturbante
smarrimento onirico. Ora lucidi e ora offuscati, i pensieri folli producono
traiettorie di parole fuggenti da ogni causa
finalis prestabilita, fatta eccezione per il fulgore della parola stessa
nella sua forma trasmutativa semantica, senza tradire la verità del messaggio
che essa contiene.
«Lo spirito creativo dell’artista, pur condizionato dall’evolversi di una
malattia, è al di là dell’opposizione tra normale e anormale e può essere
metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dalla malattia della
conchiglia. Come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la
perla, così di fronte alla forza vitale dell’opera non pensiamo alla
schizofrenia che forse era la condizione della sua nascita».
Nella metafora dell’ostrica – che produce la
perla per proteggersi dal granello di sabbia quale corpo estraneo – Jaspers ci fa notare che ammirare la
bellezza di un’opera d’arte è come ammirare una perla. E l’osservatore si trova
in realtà a contemplare la malattia della conchiglia, a fissare l’attenzione
sulla componente folle dell’artista
che, attraverso una metamorfosi del dolore, è divenuta genialità.
Come l’ostrica accetta l’intromissione di
quell’organismo fastidioso al suo interno per trasformarlo in una splendida
perla, così l’artista accoglie il dolore, lo accetta come parte di sé e cerca
di comprenderlo mutandolo in qualcosa di prezioso che è la sua opera.
Anche l’innamoramento, secondo Galimberti, ha a che fare con la
follia, poiché non ci si innamora di chiunque ma soltanto di chi ha
intercettato la nostra parte folle, di chi ci ha messo a nudo davanti ai nostri
occhi – ancor prima che davanti ai suoi – di chi è lì che ammira la perla
stupefacente del nostro disequilibrio, del
nostro vagare nei labirinti della mente.
«Amore non è
un rapporto tra me e te, ma un rapporto tra la mia parte razionale e la mia
parte folle, grazie a te che mi hai denudato. Sono già nelle tue mani perché mi
hai svelato e mi concedi di vedermi. Tu hai scoperto la mia follia quindi di te
mi fido, e a te mi affido perché se entrassi da solo nella mia follia questa
potrebbe anche farmi fuori. Ma è grazie a te che posso guardarla e uscirne».
In questo senso l’Amore genera, ci cambia,
perché ci carica di una parte di noi nascosta che adesso viene a colorare la
nostra esistenza. E che è la nostra componente folle.
L’Amore prevede il crollo della ragione. È così
che per parlare di Amore dobbiamo disancorare tutte le idee sedimentate in noi
dall’educazione, dal dogma, dalle ideologie e dalle imposizioni sociali. Per
amare dobbiamo dislocarci, dobbiamo
essere fuori luogo. Per fare l’amore
dobbiamo decapitare il nostro Io. Nell’amplesso siamo l’uno e l’altro,
ricomponiamo l’essere umano e la sua antica unità. È questa la vera essenza
dell’amore platonico: fare amplessi,
ricomporre, tornare all’origine.
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Albert Besnard, L’Amour - Series La femme 1886-1887 Van Gogh Museum, Amsterdam
L’uomo è da sempre lacerato tra la sua metà
razionale e la sua metà folle: è in questa lacerazione che lavora l’Amore, è in
questa lacerazione che lavora la Poesia.
Nella “zona franca” di contatto tra l’eccedenza
e la carenza, sottilissima è la fessura dove i poeti individuano bagliori,
affrescano l’androne del trauma facendo dello scarto meraviglia; quel secondo
mondo, quel secondo piano superiore dove
la stessa Alda Merini era andata ad abitare nei momenti di
disperazione.
Ecco allora che l’amare prepotentemente, il
vivere follemente, il pensare voracemente diventano condizioni per liberare
quella grande forza propulsiva che,
al pari del dolore, fa creare.
«La follia è una grande compagna, la si coltiva, è un po’ simile ad un
fiore che si annaffia con le lacrime. La persona normale ha una gran paura di
vedere specchiato nel folle se stesso, ha una grande paura della follia perché
è latente in ognuno di noi. Tutti siamo potenzialmente folli».
Pensiero, io
non ho più parole.
Ma cosa sei
tu in sostanza?
Qualcosa che
lacrima a volte,
e a volte dà
luce.
Pensiero,
dove hai le radici?
Nella mia
anima folle
o nel mio
grembo distrutto?
Sei così
ardito vorace,
consumi ogni
distanza;
dimmi che io
mi ritorca
come ha già
fatto Orfeo
guardando la
sua Euridice,
e così possa
perderti
nell’antro della follia.
(Alda Merini, La presenza di Orfeo)
Laddove esiste pensiero esiste anche il suo rovescio: follia. In una relazione biunivoca al cui interno le due componenti
si alimentano reciprocamente, sopra il filo del contraddittorio e
dell’oscillante.
L’ambivalenza del pensiero è forza allo stesso
tempo distruttrice e vitale, fagocitante e propulsiva, deturpante e
immaginifica; in grado di generare sia dolore che illuminazione.
Se da un lato Alda Merini vorrebbe perdere il
suo pensiero e liberarsi così della propria follia – proprio come Orfeo
voltandosi indietro perde Euridice per sempre – dall’altro, di quel pensiero
folle non può fare a meno. Sarebbe un ulteriore impazzire, come si impazzisce
per la perdita dell’amore.
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Antonio Canova, Orfeo ed
Euridice 1775-1776 Museo Correr, Venezia
La dimensione folle è una componente latente in
ogni uomo e laddove la ragione collassa essa inizia il suo magnifico teatro.
Pensiamo a cosa avviene nel sogno, quando la coscienza dimette la sua
vigilanza, il controllo razionale si annulla e tutto diviene verosimile. Si
aprono mondi psichedelici e allucinanti, salta il principio di causalità, si
abbattono le categorie di spazio e tempo, si oltrepassa la materia. Siamo qui e
altrove, siamo nel passato e nel futuro, siamo protagonisti e osservatori, noi
e qualcosa che è altro da noi. Il soggetto e l’oggetto.
Mentre la ragione si regge sul principio di non
contraddizione ma “non dice la verità”, la polivalenza è la matrice della
follia: ogni cosa ci circondi ha infatti un significato polivalente, esce dagli
schemi logici di protezione e percorre le vie del possibile. Le cose sono
disponibili per una pluralità di significati.
Per questo il rischio degli artisti è altissimo,
perché la dimensione della follia è ben più potente di quanto non sia la
dimensione della ragione. Basta ricordare l’angoscia psicotica che divora Van Gogh.
«È come avere un gran
fuoco nella propria anima e nessuno viene mai a scaldarvisi, e i passanti non
scorgono che un po’ di fumo, in alto, fuori del camino e poi se ne vanno per la
loro strada. E
allora che fare, ravvivare questo fuoco interiore, avere del sale in sé,
attendere pazientemente – ma con quanta impazienza –, attendere il momento in
cui, mi dico, qualcuno verrà a sedersi davanti a questo fuoco, e magari vi si
fermerà».
(Vincent Van Gogh, A Theo Van
Gogh, 22-24 giugno 1880)
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Vincent Van Gogh, Sulla soglia
dell’eternità 1890 Museo Kroller-Muller di
Otterlo, Olanda |
Dunque la follia è alla base della creatività e
costituisce le fondamenta di ogni creazione artistica. E gli artisti sono
coloro che sanno attingere alla dimensione trans-lucida
–uscendo dal codice razionale – dimensione dove affiora quell’oscillazione dei
significati che permette ogni trasformazione dell’oggetto poetico. Dimensione
dove siamo pervasi dall’entusiasmo
(etimologicamente: “dentro di te c’è un
dio”) e abitati da quella “divina mania” che i Greci pensavano appartenesse
soltanto agli dei.
Follia non più come la radice cattiva da
sradicare, come il boia da eliminare, ma come tavolozza da cui attingere le
innumerevoli tinte per affrescare l’opera d’arte di se stessi.
Mi tornano ora alla mente le parole della mia
amica Olimpia: “la Poesia è il sintomo”… di un pensiero in preda al folle
delirio creativo – concluderei io – e bisogna averne cura.
Perché c’è sempre una creatività innestata nella
follia, dobbiamo soltanto lasciarla libera di gridare.
RIFERIMENTI:
1-
E. A.
Poe, Opere scelte, Mondadori 2006;
2-
Martin
Heidegger, Perché i poeti?
https://it.wikiquote.org/wiki/Martin_Heidegger
3-
Karl
Jaspers, Genio e follia, Raffaello
Cortina Editore, 2001;
4- Umberto Galimberti, Le “cose” dell’amore, Festival
Filosofia e Desiderio (Misano
Adriatico, 22 giugno 2023);
5-
Alda
Merini, La Terra Santa, Scheiwiller,
Milano 2005;
6-
Rainer
Maria Rilke, Poesie 1907/1926, Einaudi 2014;
7- Roberto Filippetti, Van Gogh.
Un grande fuoco nel cuore, Itacalibri, 2008.
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