IL DIARIO DI DAFNE - Ester Guglielmino - Il tempo dei papiri
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Ester Guglielmino |
- La candidata saprebbe riferirmi una
sua idea di tempo, magari partendo da un confronto fattivo con i grandi autori
del passato?
Beh, io la risposta non la sapevo... ma alla
fine il commissario esterno – uno di quelli che già a prima vista raccolgono
ben poche simpatie – parve abbastanza soddisfatto, mentre io rimasi sempre
dell’idea d’essermi arrampicata su superfici sconnesse e scivolose.
Dopo quella volta, il tempo scomparve completamente dai miei pensieri, e così è rimasto, per anni, sopito in silenzio tra le pieghe della coscienza. E in fondo, a pensarci bene, è proprio in questa zona che resta nascosta la più grande contraddizione dell’umano: l’inconsapevolezza di correre a perdifiato lungo una traiettoria che prescinde la rapidità del nostro passo e di cui non sappiamo mai bene individuare la portata.
La vita fugge, et non s’arresta una hora
et la morte
vien dietro a gran giornate,
et le cose
presenti et le passate
mi dànno
guerra, et le future anchora; [...]
Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, 272
Inizia così – ma lo avrei scoperto solo anni
dopo – uno dei sonetti più famosi del Canzoniere petrarchesco, tra i primi ad
aprire la sezione delle cosiddette “Rime
in morte di madonna Laura” (da 264 a 366). Petrarca si mostra disorientato dalla rapidità con cui il tempo
avviluppa e consuma tutto ciò che è umano; già nel secondo verso, infatti, - in
studiato parallelismo con la vita -
campeggia la morte che “vien dietro a gran giornate”, sicché
presente, passato e futuro costituiscono un terreno indistinto e paludoso in
cui ognuno sa di essere destinato a naufragare.
Oggi (a differenza dei secoli passati) amare e
fare amare Petrarca non è facilissimo. Su di lui pesa, troppo spesso, il
confronto con la grandiosa ieraticità dell’illustre predecessore. Dante ha creato un mondo, ne ha
perpetrato per sempre la scenografia, ne ha fatto un luogo sacro a tutti noto.
Petrarca no. Alla certezza del giudizio lui oppone sempre l’incertezza della
vita, alla visione provvidenzialistica la constatazione rassegnata dell’inettitudine
umana. Un cerchio, insomma, con tutti i limiti dell’inciampo, della caduta,
dell’eterno ritorno contro una linea perfetta e dritta puntata all’infinito.
Eppure è proprio in questa desolata scoperta della irredimibile fragilità umana
che sta la grandezza storica e letteraria di Petrarca. In questo incipit, senza
possibilità d'appello, di quel percorso di frantumazione identitaria dell’io
che è solitamente considerato appannaggio del Novecento: Francesco – che,
ricordiamolo, è un chierico per scelta – vorrebbe condividere la fede
incrollabile del ben più laico Dante, vorrebbe ripeterne la forza d’animo,
l’etica invitta, la dirittura morale... ma non gli è più possibile, e qui il
suo drammatico conflitto diventa squilibrio, continuo, verso il vuoto.
D’altronde il suo è un tempo – storico e individuale – che non aiuta: le
certezze medievali vacillano, i poteri universali si disperdono in mille
rivoli, la Natura – da specchio della perfezione divina – si scheggia in
infiniti frammenti particolari. Non c’è più speranza d’arginare la
provvisorietà umana: se ancora Dante riesce ad arrivare al mistero del
Paradiso, a sublimare nella sua grandiosa costruzione la morte della giovane
amata, a trovare conferma della sua futura salvezza, Francesco non riesce mai a
volare tanto in alto. La sua Laura è e resta sempre donna di carne e di ossa,
vinta dal tempo e poi dalla morte, destinata solo alla sopravvivenza limitata
dell’alloro. Certo, c’è la possibilità del “pentérsi”[1], la
speranza di rivolgersi alla Vergine in un’ultima preghiera appassionata, ma di
fatto la consapevolezza che “quanto piace
al mondo è breve sogno” non abbandonerà mai più l’orizzonte umano, per
tutti i secoli a venire.
Eppure, eppure... non è solo di caduta che bisogna parlare, perché è da questa poesia terrena che partirà la rivalutazione divina dell’umano. Una rivalutazione che passa, innanzitutto, attraverso il recupero e l’affermazione d’una nuova concezione del tempo, tutta soggettiva e interiore. In questo Petrarca non poteva che voltarsi indietro e riannodare le fila del suo amato maestro Agostino (nonché suo alter ego nel Secretum) e di quelle Confessioni che così grande impatto avevano avuto sul suo modo di sentire.
“I tempi
sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro.
Questi tre tempi sono nella mia anima e non li vedo altrove. Il presente del
passato che è la storia; il presente del presente che è la visione; il presente
del futuro che è l’attesa.” Sant’Agostino,
Confessiones, XI, 20
Era stato il cristianissimo Agostino, quindi, a
non voler cedere definitivamente all’idea – spiccatamente cattolica – d’un
tempo apocalittico e lineare che corre svelto verso l’inevitabile compimento.
Quello stesso Agostino che amava fin troppo i classici per non vederne il fondo
buono; quell’Agostino alle cui orecchie riecheggiavano prepotenti le idee di
Seneca e di Orazio e, dietro di loro, della feconda tradizione stoica ed
epicurea.
In Seneca, ad esempio, ogni considerazione relativa al tempo viene affrontata in una prospettiva sincronica e interiore: dono prezioso e unico vero bene concesso dalla natura all’uomo, il tempo a nostra disposizione non è mai breve se investito nel migliorarsi di continuo. Ciò che conta non è quanto sia lunga la vita che abbiamo in sorte ma quanto spreco o buon uso ne faremo.
Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus. Satis longa vita et in maximarum rerum consummationem large data est, si tota bene collocaretur.
Seneca, De brevitate vitae, 1, 3
[Non abbiamo
poco tempo ma ne perdiamo parecchio. La vita è sufficientemente lunga ed è
stata concessa in abbondanza per la realizzazione di grandissime imprese,
purché sia tutta quanta impiegata bene.]
Non temete dunque, perché anche nel tempo è
possibile trovare una prospettiva ambivalente. Esiste un tempo oggettivo e
impersonale: il tempo degli orologi, dei calendari, degli anni che passano,
della storia che scorre come sabbia fine dentro alle clessidre. È questo tempo
che ci scalza i sandali per strada, questo che ci aspetta la sera tardi sulla
porta di casa; è il tempo di tutti e in fondo di nessuno, quello che ci
trasforma in vecchi, che ci prosciuga le ossa di amori e di certezze, quello
che ci sforziamo di combattere ma che non riusciamo a dominare.
E poi, invece, esiste un tempo che ci cresce
dentro, che ci matura in seno a poco a poco come una bacca verde che aspetta
paziente di trasformarsi in frutto. È il tempo dei progetti e quello degli
inizi, dei sogni che ritornano e delle aspettative, il tempo dei dolori e delle
scoperte nuove, delle soste interminate e delle speranze inaspettate. È il
tempo ‘nostro’, quello che ci attraversa i muscoli e le ossa, che passa tra i
ventricoli, che pompa nelle vene, che filtra il nostro essere e ne distilla il
senso del pensiero. È l’unica dimensione di cui siamo padroni, quella da cui
spilliamo il succo del nostro stare al mondo. È il nostro cerchio, il nostro
abbraccio, lo scudo a dispetto d’ogni linea veloce che ci corre contro. Ed è un
tempo che s’ammanta di mille colori variopinti: il rosa tenue di chi s’affaccia
alla vita, il rosso intenso di chi scopre la passione delle cose, il verde
brillante di chi impara l’equilibrio del distacco, il blu profondo di chi
riesce a guardare da lontano. Per questo non esistono i bei tempi del passato,
perché quel passato vale solo per chi già l’ha consumato. C’è il tempo d’essere
figli e quello d’essere genitori, il tempo dell’imparare e quello del mostrare
agli altri la strada che si è ormai battuta. Non è forse presunzione avvelenare
d’orizzonti scuri l’azzurro ancora limpido ch’è la strada altrui? Il tempo che
ci rappresenta, quindi, è un tempo circolare, un perpetuarsi costante di
inverni e primavere, un arrivare continuo per tornare a ripartire, anche se in
natura nulla che si ripete è mai veramente uguale; così, mentre ogni anno ci
trova distratti a risistemare armadi e fiori sul balcone, in questo lungo
cerchio si tesaurizza il nostro raccolto più importante. E non sempre si tratta
di grano maturo. Ci sono esperienze dolorose che ci toccano nel profondo,
ferite che lasciano grosse cicatrici, eppure tutto va salvato perché nel tutto
sta - direbbe Seneca - quello in cui ci
trasformiamo. È questo l’unico frutto che saldamente possediamo e di cui agli
altri possiamo consapevolmente fare dono. È nell’uso di questo patrimonio che
risiede l’arte magica di chi scrive, è lungo questa strada che la memoria del
singolo diventa memoria collettiva. Dovremmo ricordarcene più spesso dinnanzi a
questa smania, tutta attuale, di creare target preconfezionati e di
omogeneizzare, laddove la parola d’ordine – in tutto ciò che fa cultura –
dovrebbe essere specificità e distinzione. D’altronde cos’è la memoria se non
un bianco fazzoletto di lino, fra le cui trame il tempo si scioglie in un succo
buono? Ma è sempre la sensibilità del singolo a decidere ciò che va filtrato,
ciò che si perde e ciò che va trattenuto. E tutto questo richiede tempo, il
tempo del pensare, il tempo del capire, il tempo del crescere con cura la
propria voce interiore. Quello stesso tempo che non riusciamo più ad aspettare
e di cui dovremmo imparare a riappropriarci, invece, per trovare il senso del
nostro esserci al mondo e del nostro andare. E a pensarci bene, ora, qualche
risposta in più a quell’antica domanda la saprei anche dare...
Tienitelo il tuo tempo,
quello
che soffia polvere
agli
angoli di casa,
il
tempo delle corse
alle
occasioni perse,
il
tempo dell’assenza
che
svuota la mancanza,
quello
centellinato
delle
promesse a rendere
che
non mi serve più.
Mi
tengo il tempo dei tramonti
qui
sola ad aspettare,
delle
chiacchierate al bar
nel
caldo dell’estate,
il
tempo della speranza
che
nutre i desideri,
il
tempo dei papiri
uccisi
già dal sole
per
rimanere vivi.
Francesco Petrarca, Canzoniere, Einaudi, 1992
Sant’Agostino, Le confessioni, a cura di G.Reale, Bompiani, 2012
Lucio Anneo Seneca, De brevitate vitae, a cura di Alfonso Traina, Rizzoli, 1993
E.Cantarella-G.Guidorizzi, Civitas, L’età imperiale, Einaudi, 2021
G.Ferroni, Storia
della letteratura italiana, Dalle origini al Quattrocento, Elemond
Ester Guglielmino, Altre Stagioni di Morte e di Amore, Placebook, 2024
Le immagini riportate sono:
Ritratto di Petrarca di autore ignoto (dubbia l’attribuzione a Tiziano)
Ritratto
di Sant’Agostino di Sandro
Botticelli
La
morte di Seneca di Peter Paul
Rubens
Papiri di Claudio Masetta Milone (che ringrazio).
[1] et del mio vaneggiar
vergogna è ’l frutto,
e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno. RVF,
1, vv.12-14
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