IL DIARIO DI DAFNE - Ester Guglielmino - Metamorfosi

 

Ester Guglielmino

È con la narrazione del mito di Apollo e Dafne che iniziano i Metamorphosĕon libri XV di Publio Ovidio Nasone, l’ultimo poeta aureo della letteratura latina a cui fu dato in sorte di assaporare i grandi fasti della gloria augustea, appena prima di sperimentare - sulla propria pelle - quanto fossero poco rassicuranti i confini di quell’epoca magica, o quasi.

Ottaviano Augusto, figlio adottivo di Cesare e suo discendente legittimo, acclamato salvatore della Res-publica a cospetto delle derive sovversive dei cesaricidi prima e di Marco Antonio poi, fu in effetti l’iniziatore dell’Impero Romano, ancor prima che lo si dichiarasse tale. ‘Principato’ volle che fosse definito il lungo regno che lo portò a decidere le sorti di Roma, dalla battaglia di Azio (avvenuta nel 31 a. C.) fino alla sua morte (che lo colse nel 14 d. C.). Di fatto Augusto, memore della fine ingloriosa del suo illustre genitore, preferì con grande acume fondare il suo dominio sui concetti abbastanza vaghi di potestas (potere politico, e soprattutto militare) e auctoritas (autorevolezza), detenendo - dietro la confortante facciata del rispetto delle magistrature repubblicane - un potere assoluto e incontrastato. Eppure ciò non gli sarebbe bastato, se non avesse saputo sommare al suo progetto politico il sostegno dalla migliore cultura romana. I grandi intellettuali che affollarono il circolo letterario del suo fedelissimo Mecenate (Virgilio, Orazio e in parte Ovidio - giusto per citare i più noti) guardarono davvero a lui come un grande restauratore di pace, dopo i decenni di lotte fratricide che avevano trasformato Roma in un covo di vipere. Con slancio sincero, pur avvertendo in controluce le conseguenze oscure di quel potere, tesserono le sue lodi e contribuirono con profonda adesione al rinnovato splendore della politica e delle arti che lui seppe donare alla capitale. Ma Ovidio fu più sfortunato, lui che a Roma aveva trovato la fama e la fortuna, lui che ebbe puntate su di sé le luci iridescenti della ribalta fu l’unico a precipitare - oltre il limes della suscettibilità del princeps - nella disperazione dell’esilio. Un esilio improvviso e irrevocabile a Tomi (sul Mar Nero), un’isola rozza, incolta, primitiva, antitesi concreta della vita sfolgorante vissuta nell’Urbe. A nulla gli valse l’aver completato le Metamorfosi, il grande capolavoro che avrebbe consegnato all’eternità il suo nome e che lui stesso, disperato, bruciò di sua mano la notte in cui gli fu comminata la condanna. Tuttavia accade spesso - come per l’Eneide, ad esempio - che il destino avverso dei poeti preservi invece le loro opere, e anche stavolta - grazie alle copie esistenti - fu così. Le Metamorfosi sono un’opera monumentale, barocca, esuberante, affollata di personaggi, di storie e di avventure. Il filo conduttore - come preannunciato dal titolo - è la trasformazione, di solito comminata dalla potenza divina, di un essere umano (o semi-divino) in una nuova forma di vita sia essa di pianta, di stella o di animale. È l’idea - cara a tanta letteratura greca, basti pensare agli Áitia di Callimaco - della perenne rigenerazione degli esseri viventi; è il tentativo di rendere eterna la fragile contingenza a cui è condannato l’uomo.

Quello di Apollo e Dafne, in particolare, è un mito eziologico (da αἴτιον/causa e lógos/discorso) che cerca di rivelare le origini di un’usanza. Va a spiegare due diverse tradizioni: una greca, che individuava nell’alloro (in greco dáphne) la pianta sacra di Apollo (dio della poesia, della musica e della medicina), e una latina, che voleva questa pianta comparsa davanti alla casa di Augusto sul Palatino. A muovere la vicenda è però Cupido, il dispettoso dio dell’amore. Offeso da una battuta infelice del ben più prestante Apollo, il piccolo arciere lo colpisce con una freccia, che suscita subito in lui un amore irrefrenabile per la ninfa Dafne; a lei, al contrario, riserva - con una malignità quasi misogina - la freccia del disamore. Gli opposti, si sa, sono da sempre gli attori perfetti di ogni tragedia. Così Apollo insegue invano la sua bella, con tutto il fervore della sua giovinezza eterna, mentre Dafne fugge disperata dalle grinfie del suo assalitore. “Non sai, pazza, non sai da chi fuggi!”, le grida dietro Febo.

Ma Dafne è pazza, pazza di paura, come una cerva che salta e smarca in tutti i modi il cacciatore. Dafne fugge, perché raramente il disamore si può mutare nell’amore; fugge per preservare la sua bellezza, la sua volontà di amare, la sua libertà di scegliere. E sceglie, infine; sceglie di sacrificare la vita alla sua emancipazione; di credere nella rigenerazione degli esseri, nell’incanto che non muore, nell’amore che perdura in altre forme nuove. Prega Peneo, suo padre, il dio del fiume che le scorre accanto ai piedi. Gli chiede di non dover cedere alla violenza che l’incalza, di eternarsi in nobile creatura, di trasmutare in poesia la crudeltà che c’è nell’aria. Perché, in fondo, è questo la poesia: uno sguardo trasfigurante che permette di ricreare, innovandone il senso, il reale. La poesia nasce da una singola vita ma ne può abbracciare di infinite; può distillare il senso del corpo, del dolore, dell’abbandono, può farne fiato nuovo in cui sublimare in durevole l’umano.

“Appena ha finito la supplica, le invade un pesante torpore

le membra, una lieve corteccia le cinge il morbido seno,

i capelli si levano in foglie, le braccia si drizzano in rami,

i piedi fin lì così rapidi si fissano in lente radici,

la chioma le invade la faccia: non resta di lei che il fulgore”

 (Metamorphoses, I, vv. 548-552.Trad. di Ludovica Koch)

 

Dafne continua a esistere, ma non come prima; non più il suo corpo ma un altro corpo pronto a contenere l’urto degli eventi; non più la sua bellezza ma una bellezza condivisa che sa di fronde verdi e di radici; non più il suo tormento ma la quiete insita nel naturale fluire delle cose. Da ninfa divina ad alloro terreno, eppure più eterna di prima. Perché da ora sarà alloro per tutte le germinazioni a venire, l’ombra dei suoi rami rivestirà la terra, il suo profumo inebrierà non solo un dio ma tutti gli uomini che sapranno prendersi cura di lei. Così la poesia resta esperienza viva, il particolare sfuma nei contorni dell’universale, il bello si origina dalla metamorfosi cruda del reale. Così, forse, anche il gaudente poeta dell’Ars Amatoria riuscì a trasformare in rifugio l’amara poesia dei Tristia e delle Epistulae che dal Ponto gridavano il suo nome e il nome di tutti gli esuli a venire.

Anche Tesfalidet Tesfom era un esule, pur volontario; anche lui cercava, per la sua vita, un rifugio meno amaro; anche lui scappava, dall’Eritrea, una terra troppo difficile da abitare quando hai vent’anni e la speranza che ti pulsa nelle vene. E scappava anche dai lager libici, dove si era compiuta - nel silenzio assordante dell’umano - la metamorfosi del suo corpo e del suo nome. Ora lo chiamavano Segen, perché Segen - che è un nome di donna - vuol dire “col collo lungo come uno struzzo o un cammello”; infatti era diventato quasi uno scheletro, Tesfalidet, di appena trenta chili e nell’estensione del collo aveva forse tentato di condensare la sua capacità di guardare più in alto o solo di prendere fiato, magari, da quella tubercolosi non curata che gli aveva perforato già un polmone. In queste condizioni è sbarcato nel porto di Pozzallo, il 12 marzo del 2018. Non si reggeva in piedi e al dottor Vincenzo Morello, che lo prendeva in braccio e chiedeva perché fosse ridotto a quel modo, riusciva a ripetere solo: “Libia, Libia”. Eppure, nonostante la metamorfosi spietata del corpo ne avesse annullato anche il nome, come per Dafne “…così, Febo l’ama e posando la mano sul tronco le (gli) sente il cuore che palpita, sotto la nuova corteccia”. Nel portafogli di Segen - in un foglio perfettamente ripiegato e in bella calligrafia - sono state ritrovate due sue poesie in tigrino, il titolo nel capoverso: 

Non ti allarmare fratello mio

Non ti allarmare fratello mio, dimmi, non sono forse tuo fratello?
Perché non chiedi notizie di me?
È davvero così bello vivere da soli,
se dimentichi tuo fratello al momento del bisogno?
Cerco vostre notizie e mi sento soffocare
non riesco a fare neanche chiamate perse,
chiedo aiuto,
la vita con i suoi problemi provvisori
mi pesa troppo.

Ti prego fratello, prova a comprendermi,
chiedo a te perché sei mio fratello,
ti prego aiutami,

perché non chiedi notizie di me, non sono forse tuo fratello?
Nessuno mi aiuta,
e neanche mi consola,
si può essere provati dalla difficoltà,
ma dimenticarsi del proprio fratello non fa onore,
il tempo vola con i suoi rimpianti,

io non ti odio,
ma è sempre meglio avere un fratello.
No, non dirmi che hai scelto la solitudine,
se esisti e perché ci sei con le tue false promesse,
mentre io ti cerco sempre,
saresti stato così crudele se fossimo stati figli dello stesso sangue?
Ora non ho nulla,
perché in questa vita nulla ho trovato,

se porto pazienza non significa che sono sazio
perché chiunque avrà la sua ricompensa,
io e te fratello ne usciremo vittoriosi affidandoci a Dio.


Tempo sei maestro

Tempo sei maestro

per chi ti ama e per chi ti è nemico,
sai distinguere il bene dal male,
chi ti rispetta
e chi non ti dà valore.
Senza stancarti mi rendi forte,
mi insegni il coraggio,
quante salite e discese abbiamo affrontato,
hai conquistato la vittoria
ne hai fatto un capolavoro.
Sei come un libro, l’archivio infinito del passato
solo tu dirai chi aveva ragione e chi torto,
perché conosci i caratteri di ognuno,
chi sono i furbi, chi trama alle tue spalle,
chi cerca una scusa,
pensando che tu non li conosci.
Vorrei dirti ciò che non rende l’uomo
un uomo
finché si sta insieme tutto va bene,
ti dice di essere il tuo compagno d’infanzia
ma nel momento del bisogno ti tradisce.

Ogni giorno che passa, gli errori dell’uomo sono sempre di più,
lontani dalla Pace,
presi da Satana,
esseri umani che non provano pietà
o un po’ di pena,
perché rinnegano la Pace
e hanno scelto il male.
Si considerano superiori, fanno finta di non sentire,
gli piace soltanto apparire agli occhi del mondo.
Quando ti avvicini per chiedere aiuto
non ottieni nulla da loro,
non provano neanche un minimo dispiacere,
però gente mia, miei fratelli,
una sola cosa posso dirvi:
nulla è irraggiungibile,
sia che si ha tanto o niente,
tutto si può risolvere
con la fede in Dio.
Ciao, ciao
Vittoria agli oppressi!


Due poesie che sono baluardo estremo di resistenza dell’animo umano dinnanzi al dolore, all’ingiustizia, alla sopraffazione o, peggio, all’indifferenza. Tesfalidet Tesfom è morto all’ospedale maggiore di Modica, la mia città, il giorno successivo al suo sbarco a Pozzallo. È stato sepolto assieme ai tanti altri migranti (Vivien, Stephen, Nadage, Oseghale…) che ne hanno condiviso - e che continuano a condividerne - la sorte. Eppure c’è qualcosa di diverso, di terribile e sublime assieme nella sua storia: la fede incrollabile nella poesia e nella forza rigenerante della parola. “Odio gli indifferenti” recitava Gramsci dal freddo profondo della sua personale segregazione. E non dovrebbe mai essere indifferente (come oggi più che mai è) la parola, per chi parla, per chi scrive, per chi ascolta, per chi vive.

Come Dafne (nel suo mito che sfuma in storia) si è arresa alla corteccia del suo alloro, così Tesfalidet (nella sua storia che trascolora in mito) si è arreso a Segen, ma nel farlo - entrambi - hanno dimostrato che, se non si può sfuggire al destino dispettoso e crudele, se ne può tuttavia convertire in brillio eterno la disperazione. Tesfalidet è stato seppellito nel cimitero di Modica; a ricordarlo la piccola tela blu di un anonimo, raffigurante una piuma avvolta da un filo spinato, ma sarebbe davvero bello se - a custodire la sua tomba - qualcuno piantasse anche un alloro. 



Riferimenti bibliografici essenziali:

Eva Cantarella – Giulio Guidorizzi, Civitas. L’universo dei Romani, Einaudi

Santo Mazzarino, L’impero romano, Laterza

Ovidio, Metamorfosi, voll. I-II, a cura di Alessandro Barchiesi, traduzione di Ludovica Koch, Fondazione Lorenzo Valla.


Le poesie di Tesfalidet Tesfom si trovano in:

https://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Il_poeta_e_un_isola.html

mentre per le notizie sulla sua figura ringrazio il prof. Giuseppe Macauda per avermi fornito i risultati delle sue ricerche sul territorio.


In ordine, le immagini riportate sono:

         Apollo e Dafne di John William Waterhouse;

         Apollo e Dafne di Lorenzo Bernini;

    Foto del foglio recante le poesie di Tesfalidet, custodito come un reperto nell’hot spot di Pozzallo, dentro un foglio plastificato dove è scritta la lettera G e il numero 1, il codice che identifica il primo migrante sceso dalla nave in quello sbarco di 92 persone;

         Foto di Tesfalifet Tesfom, sbarcato dalla nave Proactiva della ONG spagnola Open Arms;

         Foto della piccola tela che un anonimo ha posto accanto alla sua tomba.

 


 

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