RUGIADE - Ester Guglielmino - Nota di lettura su C.I.P. di Alberto Barina

 


C.I.P., Placebook Publishing, Collana Gli Ippocampi, luglio 2024 di Alberto Barina

C.I.P. perché - oggi - bisogna essere sintetici come un acronimo, più di un acronimo.

C.I.P. perché bisogna sempre essere gradevoli e lievi (o disturbanti e costanti?) come il cinguettio d’un uccello.

C.I.P. perché bisogna essere polisemici (provate, provate a cercare quanti possibili significati si nascondono dietro appena tre iniziali!).

C.I.P. perché mi pare di vederlo in controluce il sorriso dell’autore, intento a rendere complice dei propri umori (o malumori?) il suo lettore.

Si legge davvero d’un fiato questo agile libretto di Alberto Barina (lepidum, novum, expolitum… Catullo docet): dieci componimenti, quindici immagini, poche considerazioni iniziali e finali… Eppure, appena finita la lettura, si sente subito l’esigenza di riaprirlo, di rileggerlo, di ripensarlo. Sì, perché l’impressione netta è che nessuna parola - anche la più volutamente impoetica, anche la più studiatamente impoetica - sia stata scelta a caso, ma che sia stata scelta piuttosto, tra decine di alternative possibili, come la più pregnante, la più disturbante, la più consona alla visione del mondo attuale che l’autore vuole condividere con noi. Ed è proprio ‘il condividere’ - forse - il fulcro significante di queste pagine, se l’io lirico sotteso e preteso confessa di confidarsi “…con lo scolapiatti/ che mi pare più sensibile/ ed empaticamente evoluto di certi uomini:/ un esercito di stoviglie/ compiaciute di sé stesse”. In un mondo che ha moltiplicato all’ennesima potenza i propri canali di diffusione, divulgazione, condivisione ci si scopre infatti sempre più soli e inascoltati, terrestri alieni come le nuvole di Magritte “precipitate tutte in un vaso” mentre “Forse/ volevano essere terra/ o fiore”, magari per ridiventare radice, magari solo per ritrovare un punto di incontro e di reciproco confronto. D’altronde anche dalla mancanza di un confronto autentico, voluto, oserei dire ‘toccato’ nasce il profondo senso di inadeguatezza che attanaglia quest’uomo che cerca “appartenenza”, quest’uomo costretto a essere sempre on-line per sentirsi on-life, quest’uomo che si è perso nei mille riflessi fatui di sé stesso e che ogni giorno è costretto ad affrontare un “odisseo viaggio” per un mondo altro e astratto alla ricerca di “un crepuscolo di umanità”. Che poi cos’è l’umano se non la trama spessa della memoria, che filtra il bello e il giusto per consegnarli integri a chi ci sarà dopo di noi? Tuttavia, se “Ignoro ciò/ che non vogliono più farmi conoscere”, se non riesco più ad apprezzare “quell’attimo silenzioso ed alieno/ prodotto dal pensiero” ignorerò - forse - anche il privilegio della ricerca personale e della cura dissonante, che giustificano il senso di una vita intera. Perché anche la disarmonia - una disarmonia che qui, a tratti, si riflette volutamente nello stile - è una scelta necessaria di lettura del reale, vivificante nella misura in cui disvela il lato oscuro delle cose e ne sgretola l’intonaco sotto la superficie.


Alberto Barina

Non resta che tornare al contatto con la terra, allora; scavare un solco verso cui convogliare i puri rivoli di lacrime di queste riflessioni; non resta che farne pozze di acqua fresca per innaffiare nuovi fiori; perché “Ci salverà un poeta”, il suo “Desiderio postumo”, la “Scomposta” bellezza di una stella cometa, la commozione per ogni prematura dipartita. Tutto ciò saprà gravitare lieve sulle nostre coscienze, saprà farci riscoprire in gola il suono cristallino della parola, saprà farci capire che la bellezza vera resta, si sedimenta nel cuore - che “ha già violato tutti i secoli” - e non s’invola.


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