ACCESA RUPE - Fabio Barissano - Se sbagli non ti “corrigeremo”. Wojtyla papa e poeta

 

Fabio Barissano




“Io stacco piano la luce delle parole

e raduno i pensieri come un gregge di ombre

e lentamente in tutto immetto il nulla…”

 

La storia annovera 266 papi, fino a papa Francesco. Sin dai tempi della scuola, alcuni papi ci hanno sorpreso perché, alle volte, sembravano a tutto interessati tranne che al pontificato: ora condottieri, ora mecenati, ora abili mercanti. Per secoli, il papa è stato l’uomo più ricco e influente del globo e non si contano le congiure di palazzo, gli intrighi nell’ombra o le mani anonime che porgevano boccali avvelenati per eliminare i rivali e spianare la strada al proprio pupillo. Papi come Pio III, Pio IV o Giulio II, di famiglia aristocratica, vengono ricordati per il loro sfarzo o i loro eserciti. Giulio II, addirittura, era denominato il papa guerriero. Altri papi, come Celestino V, erano dei semplici anacoreti trascinati al soglio dorato per essere manovrati come fantocci. Altri, viceversa, erano dei grandi strateghi del potere, come Bonifacio VIII della potente famiglia dei Caetani o Giovanni XXII.

Papa Giovanni Paolo II fu un papa totalmente diverso. Se, come i suoi predecessori, fu una creatura poliedrica e camaleontica, capace di agire su diversi fronti e prodursi in molteplici attività, lo fu per il bene. Non più la mostruosa piovra del passato dai mille oscuri maneggi, bensì un uomo impegnato per il bene del mondo e in armonia col proprio ruolo di successore di Pietro. Egli fu attore di teatro, intellettuale di livello, con una prodigiosa capacità di assimilare e parlare le lingue. Sembrava che il dono dello Spirito fosse disceso su di lui quando parlava in pubblico.

Wojtyła scrisse del lavoro nelle cave di pietra. Negli anni ’40, da giovane, fu operaio tra gli spaccapietre. Qui capì che il lavoro nobilita non solo l’uomo che lo compie e la materia che da egli è compiuta, ma nobilita anche le generazioni successive, in quanto la tecnica applicata fa sì che “gli altri possono camminare tranquilli”. Scrisse della propria patria, la Polonia, di cui nel 1966 ricorreva il millennio della sua fondazione e ricordando Copernico “che fermò il sole e dette una spinta alla terra”. E cantò l’uomo nella sua agitazione esistenziale con l’emblema della Samaritana e dell’incontro al pozzo (“Il pozzo a te mi ha unito / il pozzo in Te mi ha fatto entrare”) così come la saldezza della dottrina di Cristo, di cui il papa è vicario sulla terra.

Oggi scelgo una poesia del Wojtyła più intimo, non il papa impegnato nei suoi viaggi o nella storia contro il mostro comunista. La poesia, senza titolo, è il nono componimento dalla raccolta Canto del Dio nascosto:

 

Io stacco piano la luce dalle parole

e raduno i pensieri come un gregge di ombre

e lentamente in tutto immetto il nulla

che attende l’alba della creazione.

 

Lo faccio per creare uno spazio

alle tue mani tese

lo faccio per avvicinare

l’eternità in cui Tu possa alitare…

 

Inappagato dall’unico giorno della creazione

io bramo un nulla crescente,

perché il mio cuore sia disposto al soffio

del Tuo Amore.

 

Per quest’attimo – colmo di strana morte

che salpa verso l’eterno infinito,

e per un tocco di lontana arsura

che fa languire il profondo giardino.

 

Si confondono l’attimo e l’eterno

la goccia ha risucchiato il mare –

e un solare silenzio

cala sul fondo dell’estuario.

 

Una poesia semplice, apparentemente aliena dalla figura eroica e engagé del papa-artista. Tale poesia rivela, congiunti in raro accordo, l’ispirazione poetica più pura e la fede nel Dio rivelato, nascosto perché intimo, ma non per questo, come in una elevazione in Messa Solenne, meno sfolgorante.


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