Pietro Russo - Un lanternino per "Questo spentoevo": Gianfranco Lauretano e la musica delle parole

Pietro Russo




Gianfranco Lauretano è una specie di Diogene della poesia. Pur alla luce del giorno di Questo spentoevo (Graphe.it, 2024) egli continua a cercare tracce dell’umano nella sua forma più basilare («Risiediamo ancora in questo / corpo e non ci asteniamo / dall’imparare a dimenticare») dove «un me lontano soffia / qualche indizio raro / da una vita» (p. 11). Quello che potrebbe sembrare cinismo – tanto dei versi di Lauretano, quanto dell’antico filosofo greco – è in realtà un attraversamento sornione del tempo storico che ci chiama tutti a giudizio. Davanti a questo tribunale, che poi è il tribunale della posterità, il poeta può fare valere solo una ragione: «Non ho scritto altro che d’amore» (p.10).




Non fa sconti a nessuno, la difesa-attacco di Lauretano. Accademici, bestie che si conformano «alla categoria di Fabio Fazio», falsi imbonitori o semplici leccaculo: ce n’è per tutti nella metrica tagliente di questo libretto che scioglie in cantabilità (sulla scorta del caro “maestro” Caproni) i grumi di un livore civile. Il fatto è che qualcuno ha spento la luce del sole e la poesia allora deve rimettere a posto le cose con il suo canto franto dell’esistenza, suggerire un nuovo ordine, ristabilire cioè le verità che più nessuno osa dire: «i bambini ridono e riderebbero / anche nel mezzo dell’inferno. / […] tutto si apre / al cielo» (p. 18).

Ben vengano dunque i poeti come Diogene-Lauretano che hanno il coraggio di dire in faccia agli Alessandro Magno di turno – e nella maggior parte dei casi senza nemmeno un minimo della grandezza del Macedone – che il sole, malgrado le apparenze, non si può spegnere, e che la nostra specie risponde come una cassa armonica alle manifestazioni della «Cara Beltà». Noi, scrive il poeta, «siamo quelli che l’eterno / ha concepito per l’unica / risposta che gli importi / dirgli tu» (p. 32).

In Questo spentoevo si può continuare a dire che «per fortuna / succede qualcosa che ancora non so» (p. 33), ovvero che la poesia è sempre possibile e che non ha bisogno di dire niente, foss’anche una critica giusta ai costumi del tempo. La poesia, ci dice Lauretano, semplicemente c’è, è qui ad evocare la potenza musicale della parola, di un suono che si fa senso, canto dell’universo:

 

Gesù non devo dirti niente

 

Gesù non devo dirti niente

volevo solo far cantare

il nome

e che il suono

evocasse lo splendore

del volto

e vibrasse

la potenza del cuore       

e la musica

delle sante sillabe

scardinasse la pagina

scrivendo l’universo     

tu vero autore.

 

 

  

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