Melania Valenti - su "Ipotermia" di Raffaella Rossi- Nota critica
Per iniziare ad accostarmi alla raccolta Ipotermia di Rafaella Rossi, Delta 3 Ed.,2024, per la Collana Plenilunio diretta da Emanuela Sica, che ne cura anche la postfazione, ho pensato di riportare la definizione della parola che dà il titolo alla raccolta. Su un dizionario online si legge: “L'ipotermia è una condizione per cui la temperatura di un organismo vivente endotermico scende sotto il valore, differente per ogni singola specie, adatto per svolgere vita attiva, portando ad uno stato di quiescenza. […] Clinicamente, nell'uomo, è la condizione in cui la temperatura corporea di un individuo scende al di sotto di 35 °C”.[1]
Si tratta quindi di trovarsi di fronte ad uno stato di quiescenza, di addormentamento dei sensi, di stordimento, quasi, che trova luce nel tramite salvifico offerto in aiuto alla Rossi dalla parola poetica.
Sin dall’inizio si viene infatti catapultati in un mondo parallelo e interiore, quello dell’autrice, che, con penna guidata dalla memoria e dal desiderio, ci offre non pochi motivi di riflessione.
È il tema del freddo, senza dubbio, ad essere palesato in modo sincero dalla poetessa, un freddo emotivo, di straniamento dalla realtà circostante, un senso di solitudine fin nelle cose altre dal genere umano
“Una piantina di basilico solitaria nel freddo scaffale di un market nient’altro che una pianta verde”
La Rossi utilizza un lessico familiare, parla di spesa al supermercato, di cose quotidiane, intrise sempre di dolore ed assenza, di una condizione di incomunicabilità che dà, appunto, una sensazione continua di gelo interiore
Non so stereotipare il dolore
non compro offese e non le vendo.
Incasso senza cassa
non ricavando un centesimo
dall’avarizia degli altri.
Adesso nemmeno il tuo pugnale può trafiggermi
non c’è spazio
non c’è tessuto da forare
si passa soltanto da una parte all’altra.
Eri proprio tu la sagoma
sullo sfondo di un tramonto
che perdeva ogni onnipotenza
e appagava ogni tipo di esaltazione
verso l’infinito?
Ora insegnami
l’arte di ammaestrare un vuoto sincero
che di riempirsi usando un mazzo di erbette aromatiche
non ne vuole sapere.
Tuttavia, le sue poesie non si limitano a rappresentare il dolore dei vinti; c'è un desiderio di guarigione e di ritrovare calore e connessione con il mondo. Questo dualismo tra sofferenza e speranza è, a mio parere, un elemento chiave della raccolta, quell’elemento che si snoda durante la lettura delle singole liriche e che offre al lettore un margine di speranza pur nei momenti in cui la parola raggiunge punte di sofferenza notevoli
Se così non fosse, non vi sarebbe neanche la richiesta di aiuto, espressa e palesata in alcune poesie, fino a diventare preghiera
Settembre fammi autunno:
terra umida
che non scivoli tra le mani.
Fammi sempre autunno
anche tu Signore
mettimi al riparo
che io possa sopportare l’inverno
senza gli occhi suoi.
Il suo è un linguaggio ricco di immagini vivide che evocano sensazioni tangibili. Ci parla di
bambole uniche/ con i capelli increspati/ e i vestitini dalle tinte vecchie/ tutte porcellanate tranne nel busto
con una costruzione metrica ed una struttura che vanno dalle forme più tradizionali allo stile più libero ed esente da catene formali. E forse è proprio questo approccio diversificato a permettere una maggiore fluidità nella lettura, oltre, forse, a riflettere le variegate emozioni della poetessa.
Prendere in prestito il dolore degli altri
non è come ristorarsi con l’acqua
si beve dal calice amaro
come nel Getsemani
(lo allontani il Padre se vuole)
ma è viscerale per me essere umana,
è l’accordo segreto tra me e il cielo
è la truffa che mi ha indebitata
devo pagare la solitudine che mi hai lasciato.
Così oggi mi mortifica anche la cipolla in cucina
chiede perdono per provocarmi il pianto,
sono io a chiederle perdono se dovrò dividerla
e mi perdonino tutti se a volte
non sono stata sufficientemente garbata
se mi ferisce l’occhio addormentato degli altri.
Il calice è pure il mio
ma dall’orlo già sporco
beve solo chi non ha paura.
Colpisce, personalmente, la lucidità con cui la Rossi maneggia la parola, la sincerità e la schiettezza nel mostrarsi emotivamente, spesso, come nella lirica appena riportata, chiudendo in modo netto, in modo da condensare in sé il senso dell’intero componimento.
Vi è, nell’intera raccolta, una predominanza di metafore che, sin dalla Ipotermia del titolo, trasmette, attraverso descrizioni fisiche, sensazioni di assenza e di distacco emotivo che è comunque, come si diceva, in cerca di rinascita
Sei e sarai sempre
la mia primavera
non quella maledetta
la primavera
delle ciliegie dolci
nella cesta in vimini intrecciata.
Il libro è diviso internamente in cinque sezioni, dai titoli che fondono abilmente sensazioni fisiche ed emotive, introdotta, ognuna, da bellissime pagine di diario scritte in corsivo che impreziosiscono la lettura di questo bellissimo libro.
Riporto, infine, la poesia che, dopo aver riletto la raccolta, torna sempre a risuonarmi in mente, fatto che accade soltanto con le liriche che poi resteranno in un piccolo grande angolo della mia memoria
Ho un’abilità a trattare con i fili
riconosco quando qualcuno
spezza un filo con i denti
o semplicemente lo taglia.
È un suono che ho imparato
sin da piccola
l’orecchio si era già affinato
sentivo mia madre
tagliare le stoffe
spezzare fili, misurare
disegnare con i gessetti il tessuto
suoni, ritmi
la geometria.
Ho solo queste abilità:
riuscire a far passare sottilissimi fili
nelle crune di piccoli aghi,
riconoscere il filo spezzato
e cucire le asole
ma con i bottoni
ho un rapporto avverso
quando me li strappano dal petto
li conservo
e lascio asole vuote
per far passare il vento.
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