Ivana Rinaldi - Le passioni. Tristi o meno

Ivana Rinaldi


Le passioni sono infinite come i desideri, di solito vengono associate alla sofferenza fisica o spirituale. Cos’è il sacrificio di Cristo nella cultura giudaico cristiana: dalla passione del Venerdì alla Resurrezione, dall’Orto degli Ulivi al Crocefisso sul Golgota? Esaltate, nel caso delle passioni private, come l’amore, o pubbliche quando parliamo di passione civile e politica. Al contrario, oggetto di condanna se sfociano in egoismo e vizi capitali. Impossibile circoscriverle, ma sempre oggetto di letteratura, speculazione filosofica, e del pensiero di economisti. Per Spinoza sono ineliminabili nell’uomo perché rappresentano la presenza della Natura in noi, il segno dell’influenza di tutto ciò che è fuori e dentro di noi: dal raggio di sole all’atomo che costituisce il nostro corpo. Se le passioni sono indistruttibili, allora la ragione non può che perdere la battaglie contro di esse. Ma c’è una possibilità che si trova nell’Amor Dei Intellectualis. Ovvero l’amore per Dio che non è altro che l’amore per la Natura e quindi per noi stessi: la passione collabora in questo caso con la ragione. Le passioni non si possono cancellare, ma si possono elaborare. Specialmente le passioni tristi come l’invidia, la gelosia, la cupidigia, l’avarizia, che sembrano dominare l’homo economicous e l’individualismo utilitaristico che costella la sfera emotiva contemporanea: la passione acquisitiva e la passione dell’Io, vale a dire il desiderio di possedere ricchezza e beni materiali e il desiderio di distinguersi dall’altro e di autoaffermarsi. 

Già nella prima metà dell’Ottocento Alexis De Tocqueville nel suo La democrazia in America rintracciava nell’individualismo la patologia delle società democratiche. Un’attitudine che alimenta passioni mediocri come la passione del benessere che spinge gli individui a perseguire il proprio particolare interesse a discapito dell'interesse per l’altro e verso la sfera pubblica. Gli uomini ( e le donne) democratici sembrano in preda a un febbrile e spasmodico movimento verso una soddisfazione immediata dei bisogni naturali o indotti costringendoli a un eterno presente che li rende orfani del futuro, dove il futuro implica impegno, progettualità, agire responsabile. Le nostre fragili identità cercano una futile compensazione nella corsa affannosa al possesso delle cose che ci trasforma in voraci consumatori, non solo di beni materiali, ma anche di cultura, sport, affetti, politica, tutti attraversati dal processo di spettacolarizzazione in cui, come scrive Guy Deborde in La società dello spettacolo, ciò che conta è l'apparire più che l’essere.

Di passioni tristi ha scritto molto la filosofa Elena Pulcini. Cito il suo volume più noto Invidia La passione triste. I sette vizi capitali (Il Mulino, 2011) e prima di lei Miguel Benasayag e Gérard Smith (L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2004), filosofo argentino il primo, entrambi psicanalisti. Residenti in Francia hanno potuto osservare nella loro pratica professionale la sofferenza diffusa tra i singoli, specialmente giovani, come riflesso della crisi della società. L’Occidente che si è nutrito per almeno un secolo di ottimismo, l’ottimismo della ragione, ha abbandonato il pessimismo degli antichi greci che secondo Nietzsche sono gli unici in grado di guardare il dolore in faccia e ci ha consegnati all’ottimismo della ragione, della scienza, dell'utopia, perdendo di vista l’essenza umana, la bellezza, la fragilità, la ricchezza emotiva. Crollati questi miti, con la crisi ambientale, economica, sociale, l’umano si trova sommerso dalla negatività, dalla tristezza, e si infila in un’inversione narcisistica. Senza dubbio, tra le passioni tristi la più subdola è l’invidia sociale che genera conflitto e senso di inadeguatezza. L’invidia è il peccato di Lucifero geloso dell’uomo, quello di Caino verso Abele, di Saul verso David, ma anche quello di Grimilde verso Biancaneve.

Veleno dell’anima che genera tormento che spesso si trasforma in risentimento che incrina le relazioni, le paralizza. Un mostro che divora, un male oscuro che nessuno osa confessare, il più ambiguo e osceno che nessuno osa confessare. “L’invidia silenziosa cresce nel silenzio” osserva Nietzsche in Umano troppo umano, alludendo alla natura sfuggente e astuta di questa passione triste che si manifesta senza segni. Eccetto nello sguardo obliquo dell’altro. Uno sguardo rancoroso, sofferente, diffidente. Non a caso lo sguardo ha a che fare con l’invidia come ci conferma l’etimologia della parola in-videre, guardare male attraverso l’occhio malevolo che nella tradizione popolare diventa malocchio. Evil eye lo definisce Bacone di fronte alle qualità dell’altro, che viene percepito come una minaccia al proprio valore, una “sottrazione alla propria felicità” scrive Schopenhauer.

Di che cosa siamo invidiosi: della bellezza dell’altro, la casa lussuosa del vicino, la ricchezza e il successo altrui. Come tutte le passioni appartiene alla sfera irrazionale ed è il contralto della superbia. Però, dice Elena Pulcini, a differenza di tutti gli altri vizi, ha una natura relazionale. Perché lui/lei sì, io no? La hybris dell’io non tollera in questo caso arresti, né limiti, né intrusioni. Nell’era postmoderna ha a che fare con il narcisismo, il successo dell’altro rappresenta una ferita, come ci racconta Muriel Sparl nel romanzo Invidia. Insomma rappresenta un bel problema: erode il legame sociale e il tessuto relazionale. Senza alcun dubbio l’invidia sentimento personale e sociale genera forme di conflittualità nel quale l’altro è visto come potenziale nemico (Hobbes) o rivale (Smith).

Come uscire da un sentimento così pervasivo e distruttivo? Può trovare un suo contenimento nella valorizzazione del “soggetto femminile” come lo ha configurato Rousseau, scrive Elena Pulcini, fondato su un parziale sacrificio dell’Io. Attraverso l’inedita valorizzazione dell’individuo femminile, Rousseau configura una struttura emotiva alternativa a quella dell’individuo che vuole possedere. E’ fondato sulla cura e sull’amore, ma purtroppo confinato nella sfera privata che approfondisce quella scissione tra individuo pubblico e sociale e individuo intimo e privato.  La ricerca dell'autenticità si presenta dunque come un progetto critico teso alla ricerca del superamento dei guasti dell’utilitarismo per generare passioni altre, tra le quali la fedeltà a se stessi che si coniuga con l’attenzione all’altro, per riconoscervi non solo il nemico, ma l’amico, il fratello, la sorella: l'autenticità può essere in altri termini fondamento della philia. E’ necessario sì lavorare su se stessi, ma anche e soprattutto su un modello sociale che ha fatto il suo tempo.

Resistere, significa anche opporsi e scontrarsi, ma non dimentichiamo che, prima di tutto, resistere è creare” (Benasayag, Smith, L’epoca delle passioni tristi, p. 65).


 

Commenti

  1. Nel 2011 a Pisa , organizzato dalla Casa della donna , ci fu un convegno molto approfondito dal titolo “ gli esodi dalle passioni tristi “ . Lo cito perché per me fu un evento significativo per la percezione della crisi dell’epoca contemporanea . Nadia Chiaverini

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  2. Grazie Nadia Chiaverini.
    Avrei piacere di sapere se gli atti di quel convegno siano stati pubblicati.
    Ivana Rinaldi

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