Claudia Olivero – Da dove arriva la poesia

Claudia Olivero

Ci sono giornate in cui mi chiedo dove mi porterà la poesia, giornate come quella in cui David La Mantia mi ha chiesto di collaborare al suo blog: questo.

Quando succede cerco il silenzio, e mentre intorno a questo silenzio qualcosa in me prova a urlare, lo ascolto.

Perché è una dea la poesia: agguerrita e dolce, spietata e mai scontata.

Così, prima di voler indagare dove mi porterà, mi sono chiesta da dove arrivi. 


Pare, si dice, che la poesia ci sia sempre stata, sotto forme, le più diverse – presso popoli, i più lontani. E noi, nella nostra civiltà, nel nostro tempo, nella nostra cultura peninsulare, che origini abbiamo noi, singoli individui, nella poesia?


Credo che la maggior parte veda risalire coscientemente le proprie origini poetiche agli anni della scuola elementare.

Nei nostri ricordi la poesia è voce cullante, di genitore d’amore, di nonne e nonni antichi, di maestri e maestre dallo sguardo attento. Ma è anche fatica, studio mnemonico, obbligo, parafrasi, sensazione di inadeguatezza…

Da qui nasco anche io, nella poesia. È un momento felice, quello in cui si riconoscono le proprie origini.


Più precisamente io nasco dalla voce di Giovanni Pascoli, non ancora scolarizzata, una mattina d’estate nella casa in campagna, nel grande letto con la testata in legno intarsiato e la luce che filtra tra le persiane scrostate di verde. Nelle stelle cadenti agostane, nelle note che sgorgano precise dalle labbra di mia sorella maggiore.

Era il X agosto.


La prima volta che ho letto Myricae era invece l’estate della terza superiore: tra l’elenco dei libri consigliati per le vacanze c’era anche questa unica raccolta di poesie e io l’ho scelta. Mi fa tenerezza e mi dà forza, oggi, riscoprire i passi che avevo sottolineato allora, nei quali qua e là mi ritrovo, ma che soprattutto cerco di collocare in quegli anni della vita, in cui le cose ci toccano in modo nuovo, puro, diverso. Solo allora e poi non più. 

Tranne, forse, quando riusciamo ad avvicinarci in silenzio e rispettosamente all’arte, come quando eravamo privi di esperienza, carichi soltanto di potenziale di vita.


Se guardi il sole, occhio, che vedi? Un vòto

vortice, un niente (1).


Rivedo i luoghi dove un giorno ho pianto:

un sorriso mi sembra ora quel pianto.

Rivedo i luoghi, dove ho già sorriso…

Oh! come lacrimoso quel sorriso! (2)


M’affaccio alla finestra, e vedo il mare:

vanno le stelle, tremolano l’onde.

Vedo stelle passare, onde passare:

un guizzo chiama, un palpito risponde.


Ecco sospira l’acqua, alita il vento:

sul mare è apparso un bel ponte d’argento.


Ponte gettato sui laghi sereni,

per chi dunque sei fatto e dove meni? (3)


Se storicamente il ruolo della poesia era quello di tramandare oralmente i saperi e i valori, non meno importante era l’arte richiesta di intrattenere il pubblico: dunque la poesia e il suo pubblico sono sempre stati un nodo culturale centrale. 

Oggi si specula molto su questo concetto, lamentandosi della distanza della gente dalla poesia, dove forse, invece, è proprio la poesia a essere lontana dal suo pubblico.


D’altronde, citando lo stesso Pascoli, il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro [...]. A costituire il poeta vale infinitamente più il sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra. (4)


Ora che so dove sono nata nella poesia, è maturo il momento di chiedermi dove voglio andare. Il luogo non lo conosco: pellegrino è l’aedo. 

Ma ciò che più ci si avvicina sono il cuore e la mente, la pelle e le orecchie, la vista, il tatto e perfino l’olfatto, il gusto: perché la poesia è tutto, in potenza, ma soprattutto è ovunque. 


X AGOSTO, Giovanni Pascoli, Myricae


Posologia: prima della lettura cercare una mattina di sole, preparare una fetta di pane con burro e zucchero, sedersi a gambe incrociate sul balcone o in un prato. Addentare il pane, ricordare l’infanzia. Ascoltare. Leggere a voce alta:


San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dei suoi rondinini.

Ora è là come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido
portava due bambole in dono…

Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male! 






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Riferimenti:

1. Morte e sole
2. Il passato
3. Il mare
4. Il fanciullo, cap. XI e P. Montanari in https://www.eurocomunicazione.com/2023/04/30/la-concezione-della-natura-nella-poesia/







 

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