Fabio Barissano - Il mito in do minore: la “Spoon River” di Anna Griva
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Fabio Barissano |
Come afferma Maria Consiglia Alvino nell’introduzione all’edizione italiana: Come Orfeo, Anna Griva prova, con un procedimento analogo a quello di Dante nella Commedia, a sfondare la soglia invalicabile della morte, concedendo nuova vita ai personaggi del mito e spingendo nel contempo il lettore a riavvolgere il filo della propria. Certo parliamo di mythos, termine con cui i greci indicavano la dimensione orale di una parola volta a immaginare, a incantare. Così i personaggi di questo libro, presi dal ciclo troiano o dalle tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide, prendono a narrare e, come l’anima dantesca, “tutta si confessa” per l’imperioso bisogno che la porta a dire. Da Achille a Priamo, da Clitemnestra ad Antigone, da Ecuba a Cassandra fino a Pasifae: tante sono le figure, di uomini e di donne, di eroi ed eroine della guerra della tragedia, a narrarsi in prima persona, a dirci come si vive sulla riva opposta del Tempo. Ascoltiamo le parole di Antigone, figura protagonista di una poesia (pag. 32): ANTIGONE Con quei nastri rossi leghiamo i nostri capelli quelli bianchi, quelli li gettiamo al vento e quelli d’oro erano doni per gli dei. Una volta un bambino mi chiese se avessi paura di morire e mi strinse alla gola un nastro. Per lui era solo uno scherzo: come sapeva che l’avevo visto appeso alla trave della casa Ero piccola mi chiusero gli occhi mi chiusero la bocca sentii solo il corpo quando cadde con fracasso a terra. Colpisce la tragedia nell’eco di una violenza subita già nella vita terrena, il dolore del corpo mantenuto nello spirito che, sceso nell’Ade, non può raccontarsi se non per tramite di quell’episodio doloroso. Non solo. Le anime, pur colte nei loro soliloqui, intrecciano rapporti con le altre anime, come se l’inferno della Griva fosse un’immensa caverna con molte nicchie comunicanti, per cui la voce di una figura si richiama alla voce di un’altra. Tuttavia restano sole, parlano di altri ma non con gli altri. Perché, infine, è la dimensione della solitudine a caratterizzarle, come annota la Alvino nella sua Introduzione: Lo scuro filo annodato che unisce le anime parlanti di questa silloge è il racconto; vi è un’unica consolazione possibile ed è la parola; eppure, le voci che si levano dalle pagine della Griva sono parallele e non si incontrano; si uniscono, ma non comunicano; a volte si succedono in un contrappunto ironico (Achille-Pentesilea; Clitemnestra-Oreste; Giocasta-Antigone; Ecuba-Priamo), ma non comunicano. Così fa Clitemnestra in quest’altra poesia in cui l’eroina moglie di Agamennone ricorda e nomina gli altri attori dell’antichissimo dramma che offuscò e insanguinò la casa e l’onore degli Atridi. Ascoltiamola nella sua altissima solitudine (pag. 18): CLITEMNESTRA Dov’è Ifigenia? Una voce diceva che fosse viva. Ma io ho sempre creduto che fossero parole di Agamennone Era lui che le metteva di nascosto sulla bocca della gente per addormentare la mia follia. Dov’è Oreste? Qualcuno mi sussurrò che dopo l’assassinio trovò pace ad Atene. Ma io non credo a queste cose io ho vissuto nel sangue e non si è mai diviso. Dov’è Elettra? Sempre mi ha spaventato come un cigno nero errante il suo lamento insopportabile tormenta tutto il bosco. Egisto dov’è? Almeno lui con me sarebbe dovuto rimanere qui nella casa degli assassini. Ma forse ha cambiato idea e Plutone ne ha avuto compassione. Dov’è Agamennone? Sento la sua risata a percussione e i pesanti suoi passi. Se viene più vicino quanti vorranno sgozzarlo? E se il suo corpo non è rimasto sgozzeranno la sua ombra. La ragione non mi tocca più ma dissi loro una volta: un bagno preparerete un bagno acheronteo morte su morte così da compiere il rito. Ma qui nessuno mi ascolta qui diventano tutti nostalgici del sole. Si parla di sangue, quello vero che scorre nelle vene e quello ideale che impasta le famiglie. Il sangue cercato dai morti che assediavano Ulisse nell’Ade e il sangue della famiglia reale cui Clitemnestra apparteneva, unica voce a cui la donna presta fede, in vita come in morte. Dice ancora la Alvino: Il sangue, del resto, appare come unico criterio di verità: lo sa bene Clitemnestra, che ancora non crede alle dicerie sul destino dei suoi figli e di Egisto, perché ha vissuto nel sangue e solo questo non l’ha mai tradita. Né i nomi e la conoscenza delle cose possono costituire elemento di salvezza: “la lettera non ti salverà”, dice la dea ad Ecuba in mezzo all’incendio di Troia. Anche d’amore si parla. Nel gioco intessuto da Anna Griva compare Pentesilea, regina delle Amazzoni, scelta per uccidere il semidivo Achille. Ma il destino invertì le azioni e se il mito ci consegna l’immagine dell’eroina morta tra le braccia del Pelìde, la Griva ci scuote col fosco quadro di una donna morta per potenza d’amore (pag. 16): ma io scesi in battaglia e mi tirò per i capelli la sua feroce tempesta: una nera forza cieca che mi squarciò il sangue Ma un dubbio ci coglie. Forse che l’autrice sta parlando di sé attraverso le sue figure? Dovremmo credere che una tirannica volontà autoriale usi come marionette i suoi personaggi dilatandone lo sguardo fino a comprendere le cose contemporanee, ad allungarne la pena fino ad oggi, fino agli occhi della loro autrice? La domanda può apparire oziosa, considerando la querelle spesso irrisolta sulla liceità di un’interpretazione autobiografica dell’opera d’invenzione. Sarebbe però, viceversa, illecito escludere questa prospettiva feconda di semi, in cui si riflette un destino: quello del poeta che vuole declamare la sua storia con in nuce una verità quasi mai colta nel suo tempo. È il destino dei poeti, questo; così fu per Cassandra, l’indovina troiana che visse nella tragica afflizione di profetare senza essere creduta. Non è un caso che la troviamo a parlare (pag. 34): CASSANDRA Tengo accesa una candela per Plutone per rischiarare le sue scritte: quante anime arriveranno quanti giorni riceveranno e quando atterreranno. Dimmi, Cassandra, mi chiedono, cosa vedi nel futuro. Signore, vedo una pestilenza le loro vene inchiostro gli occhi si gonfieranno i loro ventri si apriranno. E lui come ride! I suoi denti fumano e i suoi capelli dalla gioia di fumo e neve brillano. Dimmi, Cassandra, da capo cosa vedi nel futuro. Signore, vedo guerra spada, fuoco e ira e i bambini dal terrore cadranno nel pozzo. E lui come ride! Mi dà stoffe rosse mi dà veli di seta mi dà fili d’oro per ricamare i vestiti. Ma io li distendo in segreto quando cadono i bambini dal pozzo dritto ai miei piedi li avvolgo sottoterra e li mando di nuovo su. Allora i campi fioriscono e negli alveari scorre dolce in tutte le cose future il miele dei miracoli. Il tono perentorio nel volere una risposta, il ritornare insistito sulla domanda “Dimmi, Cassandra”, il passaggio dalla prima alla seconda persona inscenando un dialogo, consegnano l’idea di un’urgenza del rivelare e al contempo un gioco di mascheramenti per cui non sappiamo chi sia a interloquire con l’indovina, sia l’autrice o altri per lei. Così il poetare si innalza e se prima ci chiedevamo se l’autrice parlasse di sé ora siamo coinvolti anche noi: Uno scuro filo annodato non è opera chiusa nei cammei di diversi personaggi che hanno per un momento voce e luce ma è opera di più ampio respiro che prende anche il lettore. Vorremmo, non senza retorica, dire: “de te fabula narratur”. Ma una cosa è certa: qui niente resta immobile, tutto scorre come diceva il filosofo Eraclito. E quale più indovinata chiusa da parte dell’autrice che cantare un inno all’acqua (leggi: metafora di una vita in perenne movimento e di un desiderio trafitto da un’eterna inquietudine) alla fine di questa mitologica “Spoon River”? (pag. 58): ACQUA Una volta mi hai chiesto quale animale amo. La volpe con le sue grandi orecchie? Le capre selvatiche che si arrampicano a testa in giù? I lupi? I cigni? O forse animali mitici: mostruosi Centauri dèi che mutano la loro forma e diventano cervi? Ma io non ti dirò quale animale amo perché ho dentro di me un’intera foresta: gli uccelli selvatici che diventano fiori quando si stendono sui rami i serpenti che distendono fili colorati sulla terra gli insetti i vermi le bestie selvatiche dei dirupi e da qualche parte nel profondo del mio petto una piccola bambina che indisciplinata danza. Chiudi gli occhi e ascolta il tuo cuore nell’oscurità il timpano che batte la danza più folle e intorno un fiume mistico con nera acqua Con questa la coppa riempi: un canto simposiale il silenzio e un brindisi al caos. |
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