Fabio Barissano - Roberto Carifi: fedeltà alla catastrofe

 


Nato dopo la guerra, con alle spalle le macerie di un’epoca e di uno stile, Roberto Carifi è figlio di una catastrofe. Tutta la sua infanzia fu un guardare il cielo dalle rovine, compiere il disperato tentativo di coniugare l’Angelo e l’uomo che soffre, il cielo e una terra “ferrosa e scalcinata”. Come scrive nella prosa introduttiva all’antologia Amorosa sempre:

 

Immaginiamo un bambino del dopoguerra che gioca in uno spiazzo sterrato e desolato, circondato da edifici sventrati e cadenti. Questi segni gli parlano di una guerra che non ha conosciuto e i suoi occhi guardano verso il cielo nello spasimo di amarne la trasparenza. Così il sogno della poesia. Un atto di fedeltà ad un Angelo bruciato e la fedeltà altrettanto rigorosa a una terra desolata e secca. Il bambino è cresciuto, le macerie della sua infanzia sono ancora lì, cifre di un conflitto che il mito può illuminare ma non redimere.

 

L’Europa bruciava e con essa la scuola - ancora in parte classica - dell’Ermetismo, cui egli pure si avvicinò in gioventù (dice niente Piero Bigongiari?). Poi si unì alle voci dell’esilio e della dissidenza: Rilke, Trackl (che tradusse dal tedesco), Cvetaeva, Achmatova e Paul Celan. Si formava una personalità e uno stile.

Ma come inquadrare il suo mondo? Quella cifra trascendente in evemenenziale numinosità? È vasto il catalogo di figure: ci sono le madonne (scolorate pitture parietali o dominanti da edicole nei vicoli) e il vario esercito dei poveri cui Carifi dichiara un’amorosa appartenenza. Ma, soprattutto, la Madre. Essa regna, fantasma ubiquo e lieve, campeggiante per molte liriche, innominata sempre. Come qui, dalla raccolta Infanzia:

 

Madre scolpita nel dolore, forestiero al tuo ventre
è questo tempo che trascorre piano
cantilena del vuoto martelli le terrazze
e la dimora strascica un bianco di lenzuola,
l'orma convalescente che sbiadiva
nei cuscini dell'infanzia,
l'Angelo che veglia fino all'alba
tace sulla soglia
ancora trema con le ali
e come ronza quieto il suo respiro
dove l'età si gela, ferma, nella morte.

 

Il grembo è abbandonato. Il figlio è disperso nel mondo e percorre i sentieri di un autonomo abbandono, di sovrabbondante pietà chiusa. E non c’è ritorno, solo nòstos, sentimento del tempo inverso, dell’à rebours che è tutta la sua vita. Ma stiamo attenti: Carifi non è Pascoli e la sua poetica non sovrappone le sue membra a quelle sottodimensionate del Fanciullino: come sottolinea Giulio Ferroni nella Prefazione all’antologia:

 

L’infanzia evocata da Carifi non è un’infanzia del “prima”, ma un’infanzia del “dopo”: un “dopo” che si sostanzia nell’esperienza individuale dell’autore, […]. Così questa poesia tende a rapportarsi ad un inizio in cui l’avvolgente protezione dell’universo materni, del mondo delle madri, si intreccia con la paura e con l’angoscia dell’abbandono, del persistere le rovine.

 

"Amorosa sempre", Milano, La nave di Teseo, 2018.

Abbiamo capito? Le madri e le rovine sono unite da una corda, quella tesa già sugli spalti della scena romantica e che del Romanticismo riprende la struggente consapevolezza di un amore per il passato ma anche la sua impossibile ripresentazione. È la fine dell’epoca moderna, all’uscio del mondo contemporaneo, e Carifi è uomo del tempo corrente. Così si vive nello spaesamento, nella sfasatura dal reale, come scollati con l’occhio reso torbido dall’accumulo di visioni di un’atmosfera che è sovraterrestre per potenza mentale ma intuitivamente riconosciuta come nostra perché affonda l’indice tra le pieghe dolenti dell’umano. Come in una lirica tratta da Occidente:

 

Chi si uccide, dopo la porta,

nei vetri spalancati sulla polvere

ha conosciuto la solitudine del sangue

aggrappato alle dita del giocattolo

non so altro, dice, solo che le cose durano

interrogato dalla neve, dai cavi della luce.

 

È dolente, la scena allestita da Carifi, abitante un mondo desolato, ombra tra le ombre. Sembra che, per una scelta del regista o per un caso assai doloroso, le persone siano evacuate o addirittura scomparse, che restino solo i paesaggi con una luce spettrale, attutita, di perenne inverno. Perché c’è un pessimismo che dilaga nel suo sguardo (dolce e glauco, di bambino pensoso, come sa chi lo ha incontrato) che è il pessimismo della ragione che affligge la matura intelligenza occidentale che non necessariamente trova il suo rovescio in un ingenuo ottimismo della volontà. Leggiamo, dalla stessa raccolta, l’eponima poesia A occidente:

 

A occidente affondano le navi. Quando?
E’ giusta la voce che racconta il nulla?
scintillano, a volte, ma non è sole
piuttosto un fuoco, un fuocherello acceso nella notte.
Accade a occidente, soltanto a occidente
se danno l’ordine le mani
e comanda il gesto spaventoso.
E’ ora di scendere, degradare laggiù,
verso le nebbie, arrancare se occorre
come morti che cercano l’uscita;
questi sono gli ordini, poi basta.
E’ neve la donna che saluta i marinai,
si scioglierà dietro l’angolo,
si annullerà in segreto,
quando si accende la brace dei ricordi
a occidente è perduto chi non salpa.

 

Diciamo, il genio della musa poetica è quello di non prestarsi ai facili entusiasmi di un’ermeneutica riduttiva fino alla banale trivialità espositiva. La poesia è oscura, col suo ritmo tantrico, con le sue immagini messe di traverso. Non occorre spiegarla perché noi umani ne riconosciamo il diritto di cittadinanza oltre al suo indiscutibile potere. Ma qui perché non discutere di una eco filosofica, di Nietzsche e di Spengler, in questo occidente drammaticamente composto nel suo gelo, nel suo “gesto spaventoso”. Certo, il connubio Carifi-filosofia esiste e lo stesso autore tessé l’ordito della propria biografia alla trama di pensatori occidentali (soprattutto Heidegger) e orientali (nella veste del Buddismo, religione altamente filosofica). E qui il quadro si allarga, ma Carifi non è poeta che giganteggia con una cornice che abbracci il cielo. È poeta degli ultimi, umile bardo di un popolo mite e sottotono, il cui emblema è il figlio, figura mistica cui egli restò tenacemente attaccato per tutta la vita. Come si legge in Ramo spoglio, tratta dalla silloge Il figlio dove si avverte che il poeta è in consonanza col dolore del mondo che risuona in ogni cosa:

 

Ombra chiamata

tra vico e vico non c’è chi non disperi,

io sono figlio e porto la sua voce.

Conosci già questa prigione?

Ho per dimora un uscio,

la soglia è il mio destino,

brindo di notte insieme ai condannati.

Chi spezza il pane sotto la stella buia?

Chi, chi divide?

Prego inguaribile più della pazienza,

sto come un ramo spoglio,

in me c’è un muto che prende la parola.

Sei tu quel corpo che fu cariato invano?

In quale luce esaurisci?

Io sono figlio e porto il suo perdono.

 

Come non sentire che il poeta sa che la sua poesia riesce, in sentimento e geometria, perché è essenziale come una rosa, vera come una verità filosofica? Ma andiamo avanti. Il tema della madre conduce al tema del figlio, naturalmente. E qui le stimmate di un destino si fanno dolorosamente illuminanti, nel non dimenticare da dove si proviene, continuare col canto e desistere mai. Da Il figlio

 

Perché non durano le madri

e i figli sono un transito muto

ponti, contrade che hanno solo vento,

i figli durano fino alle madri

e poi trascorrono, si scolorisce

in loro questa parola semplice,

la vita, nella penombra

dove saranno allontanati.

Perché si perde il viso delle madri,

il viso dura al cuore dei figli

dopo non batte, non respirano

hanno quell’invisibile nel cuore,

i figli.

Roberto Carifi


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