Pietro Russo - L’inesauribile stupore della poesia di Wisława Szymborska

 

Pietro Russo




Molto prima di Copernico, il Dio dell’Antico Testamento, provando a ridimensionare le proteste del povero Giobbe, pone una pietra importante contro la visione antropocentrica ed egoriferita del ben noto personaggio biblico: «Dov’eri tu quando ponevo le fondamenta della terra?» (Gb 38, 4). L’episodio è ripreso anche da Wisława Szymborska in una delle rare prose incastonate nella sua produzione poetica. Si tratta di un Riassunto (così il titolo) asciutto, quasi al limite del referto cronachistico, in cui la poetessa si limita a commentare che è una pagina, quella biblica, di «grande poesia. Giobbe ascolta – Dio parla a sproposito, perché non desidera parlare a proposito. Perciò si affretta a prosternarsi davanti a Dio».[1] Di fatto la risposta divina ammutolisce Giobbe che, da parte sua, «non vuole guastare il capolavoro»: d’ora in avanti ogni parola che sgorgherà dalla sua bocca testimonierà la lezione di questo silenzio in cui l’essere umano sperimenta la condizione del “doppio infinito”, verso la grandezza non meno che verso la piccolezza, per dirla con le parole di Pascal.

Da lettore di Szymborska, credo che in questo episodio biblico si possa rintracciare, e a buon diritto, il fondamento della poesia dell’autrice polacca. Va da sé che la domanda del Dio di Giobbe non rimane inevasa, ma genera nella scrittura di Szymborska quella che a mio avviso è la cifra più peculiare della sua Opera: un procedere sornione per dubbi e dilemmi, ovvero una inesauribile e ironica interrogazione dell’esistenza dettata dallo stupore di scoprirsi parte integrante di essa: «Un miracolo, basta guardarsi intorno: / il mondo onnipresente».[2] Già nel 1954, con Domande poste a me stessa, Szymborska inaugura le linee di una personale ricerca della verità che la condurrà a confrontarsi con i cosiddetti “Massimi Sistemi”, ma assumendo sempre una prospettiva defilata, straniata, quasi casuale. «Solo ciò che è umano può essere davvero straniero» scrive in Salmo, dalla raccolta Grande numero (1976), provando ad «afferrare con un solo sguardo tutta questa confusione»[3] che corrisponde alla storia umana e che, dieci anni più tardi, restringendo ulteriormente il campo, verrà posta quale termine di relazione dell’infinitamente piccolo granello di sabbia (Vista con granello di sabbia).[4]

Pur nella contingenza del quotidiano, la poesia di Szymborska contempla e abbraccia una visione che prende a picconate il maestoso fondale dell’antropocene: «Mi stupisco io stessa del poco di me che è restato: / una persona singola per ora di genere umano, / che ha perso solo ieri l’ombrello sul treno» (Discorso all’Ufficio oggetti smarriti).[5] Tra queste macerie non si fanno sconti al lettore, il quale però non viene abbandonato mai alle porte della disperazione per prendere atto del fallimento di una narrazione antropica che lo vede, alla fine di tutto, detronizzato e messo a nudo nella sua “miseria” (credito ancora verso Pascal); al contrario, egli è invitato a redigere Una versione dei fatti della sua esperienza di individuo appartenente a una specie che, a un certo punto, miracolosamente (l’avverbio, come abbiamo già visto, ha un certo peso per la poetessa) si è ritrovata ad abitare il terzo pianeta del Sistema solare: «Guardammo la Terra. / Ci viveva già qualche temerario. / Una pianta gracile / si aggrappava alla roccia / con l’incosciente fiducia / che il vento non l’avrebbe strappata».[6] 

Certo, stando così le cose, il confine tra saggezza e cinismo sembra quel filo su cui sta in aria l’acrobata, laddove cadere da una parte o dall’altra aprirebbe uno scarto quantistico abissale: qui abbiamo l’accettazione della vita come sinolo di caso e necessità (come ad esempio in Nella moltitudine[7] o ancora in Assenza[8]), mentre là il coincidere dell’espressione con un grido straziante, cristologico ma senza andare troppo oltre la croce: «“Mio Dio”, grida l’uomo a se stesso» (Recensione di una poesia non scritta).[9] Il che, in fondo, ci riporta al punto da cui siamo partiti, al dolore di Giobbe e alla risposta di Dio.

Non trovo perciò sorprendente che la consacrazione simbolica di Szymborska nell’Olimpo della poesia (il conferimento del Nobel nel 1996) sia segnata dal nome di colui che nelle Scritture si presenta come il fratello più prossimo di Giobbe: Qohelet. Rivolgendosi agli accademici svedesi, Szymborska confessa quanto segue:

Mi capita di sognare situazioni irrealizzabili. Nella mia temerarietà immagino per esempio di avere l’occasione di conversare con l’Ecclesiaste, autore di un lamento quanto mai profondo sulla vanità di ogni agire umano. Mi inchinerei profondamente avanti a lui, perché si tratta – almeno per me – di uno dei massimi poeti.[10]

Ecco, se devo condensare in una immagine l’opera poetica di Szymborska penso a questo colloquio ininterrotto, modulato sulle frequenze della poesia, tra l’autrice e proprio quel Qohelet che di volta in volta assume forme e sembianze diverse; ad esempio quella de Il vecchio Professore che, incalzato dalle domande della Nostra, condivide il frutto della sua ricerca conoscitiva:

 

Gli ho chiesto se sa ancora di sicuro

cosa è bene e male per il genere umano.

 

È la più mortifera di tutte le illusioni

– mi ha risposto.

 

Gli ho chiesto del futuro,

se ancora lo vede luminoso.

 

Ho letto troppi libri di storia

– mi ha risposto.

[…]

 

Gli ho chiesto se gli capita di essere felice.

 

Lavoro

– mi ha risposto.

[…]

 

Gli ho chiesto della salute e del suo morale.

[…]

 

Gli ho chiesto del suo giardino e della sua panchina.

 

Quando la sera è tersa, osservo il cielo.

Non finisco mai di stupirmi,

tanti punti di vista ci sono lassù

– mi ha risposto.[11]

 

Sempre con l’avallo dell’autore biblico, nemico giurato dell’insensatezza e consolatore della fragilità umana, credo che di questo inesauribile stupore che è al fondo la poesia di Wisława Szymborska si possa senz’altro dire, a mo’ di esergo della sua poetica: «è andata bene per una volta / e forse soltanto sotto questo sole».[12]



[1] Wisława Szymborska, Riassunto, in Ead., Sale. Tutte le citazioni delle poesie sono tratte dall’edizione italiana curata da Pietro Marchesani: Wisława Szymborska, La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), Adelphi, Milano, 2009. Il testo qui citato si legge a p. 167.

[2] La fiera dei miracoli, p. 485.

[3] Salmo, pp. 347-9.

[4] Vista con granello di sabbia, p. 423.

[5] Discorso all’Ufficio oggetti smarriti, p. 305.

[6] Una versione dei fatti, p. 559.

[7] Nella moltitudine, pp. 567-9: «Sono quella che sono. / Un caso inconcepibile / come ogni caso. // […] / Potevo essere me stessa – ma senza stupore, / e ciò vorrebbe dire / qualcuno di totalmente diverso».

[8] Assenza, p. 627, laddove a mancare sarebbe stata proprio lei, la poetessa, se il padre e la madre avessero concepito separatamente, con altri rispettivi partner, due figlie diverse che di certo non sarebbero state Wisława Szymborska.

[9] Recensione di una poesia non scritta, p. 381.

[10] W. Szymborska, Il poeta e il mondo, in Ead., Opere, Adelphi, Milano, 2009, p. 103.

[11] Il vecchio Professore, pp. 647-9.

[12] Scheletro di dinosauro, p. 297.


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