Melania Valenti - Ancestrale, Goliarda ed io.

Melania Valenti

Si è appena conclusa la 5a edizione de Le azzurre braccia della Luna”, reading poetico organizzato dalla comunità Versipelle. Introduco questo mio pezzo quindi così, con il piacere di condividere una attività, cui sono stata generosamente invitata a partecipare dalla Amica di penna e di cuore Emanuela Sica, con la paziente ospitalità di Federico Preziosi e la altrettanto paziente e assai competente conduzione della serata da parte di Elena Deserventi. Ha sempre la mia stima chi si spende per diffondere Poesia. Ho il cuore sempre aperto nei confronti di chi opera per le cose belle. E per me quella serata in Poesia, insieme a tante voci di rilievo ad ascoltare versi, è stata una “cosa Bella”.

Perché questa premessa? Perché proprio l’invito a partecipare all’evento di cui sopra1 è stata per me l’occasione di parlare di una poetessa cui sono legata in modo viscerale e che ho scoperto in tale veste da pochi anni. Questo perché il mio primo contatto con la sua scrittura fu con il celebre romanzo postumo L’Arte della gioia, che, a dispetto della sua grande fama, non ha incontrato del tutto i miei gusti. Sto ovviamente parlando di Goliarda Sapienza (1924-1996). 

La mia conterranea, nota scrittrice e attrice, si trasferì appena diciottenne a Roma insieme alla madre per studiare all’Accademia di Arte Drammatica e con il compagno, il regista Citto Maselli, divenne assidua frequentatrice degli ambienti artistici e culturali della Roma della metà del ‘900. Conobbe e lavorò così con Visconti, Comencini, Blasetti, Zavattini, ma conoscere dall’interno un ambiente che sentiva tanto falso e lontano dal suo modo incisivo di vivere la realtà, alimentò il suo senso di estraneità a quel mondo. Fu così che la pressione della passione per la scrittura ebbe la meglio. Ecco che nel ’67 esce allora il suo primo romanzo, Lettera aperta, cui seguirono Il filo di mezzogiorno (1969), L'università di Rebibbia (1983), e Le certezze del dubbio (1987). Tutto il resto della sua prolifica produzione uscì postuma, a cura di Angelo Pellegrino, compreso Ancestrale (La vita felice, Milano 2013)2, con prefazione a cura del critico sopracitato, appunto, e postfazione di Anna Toscano.

Pubblicato nel 2013, il volume riunisce la sua produzione poetica, chiudendo con Siciliane, breve raccolta edita nel 2012 da Il Girasole Ed., interamente scritta in lingua madre senza traduzione a fronte. È comunque del tutto comprensibile come se fosse scritta in lingua italiana, data la scelta editoriale mantenuta di non apporre traduzione.

Personalità tormentata, la Sapienza cerca nella scrittura una forma espressiva che forse in altro modo non riesce a raggiungere. E nel testo poetico trova, a mio modesto modo di vedere, l’espressione più consona alla sua anima, al suo dolore, alla sua inquieta instabilità.

La poesia, si sa, non può mentire, e Goliarda vi trova rifugio all’indomani della precoce perdita della madre, la socialista e rivoluzionaria Maria Giudice, che tanta parte aveva avuto nei movimenti per l’emancipazione femminile e che lei amava profondamente, benché se ne sentisse altrettanto profondamente distante. E per lei scrive una poesia che è dichiarazione di amore senza età, di un amore che parla di rapporto ancestrale, appunto, di un amore che giunge a farle aprire per la madre, sofferente di una grave forma di diabete, un conto dal pasticcere sotto casa una volta saputo che le sarebbero comunque rimasti pochi mesi di vita. E da figlia di padre che era diabetico, so quanto debba esserle costata quella scelta di amore senza ritorno…

A mia Madre

Quando tornerò

sarà notte fonda

Quando tornerò

saranno mute le cose

Nessuno m’aspetterà

in quel letto di terra

Nessuno m’accoglierà

in quel silenzio di terra

 

Nessuno mi consolerà

per tutte le parti già morte

che porto in me

con rassegnata impotenza

Nessuno mi consolerà

per quegli attimi perduti

per quei suoni scordati

che da tempo

viaggiano al mio fianco e fanno denso

il respiro, melmosa la lingua

 

Quando verrò

solo una fessura

basterà a contenermi e nessuna mano

spianerà la terra

sotto le guance gelide e nessuna

mano si opporrà alla fretta

della vanga al suo ritmo indifferente

per quella fine estranea, ripugnante

 

Potessi in quella notte

vuota posare la mia fronte

sul tuo seno grande di sempre

Potessi rivestirmi

del tuo braccio e tenendo

nelle mani il tuo polso affilato

da pensieri acuminati

da terrori taglienti

potessi in quella notte

risentire

il mio corpo lungo il tuo possente

materno

spossato da parti tremendi

schiantato da lunghi congiungimenti

 

Ma troppo tarda

la mia notte e tu

non puoi aspettare oltre

E nessuno spianerà la terra

sotto il mio fianco

nessuno si opporrà alla fretta

che prende gli uomini

davanti a una bara.

E sempre alla madre, dedica la Sapienza la lirica in apertura di Siciliane, libro con cui aveva siglato, anche formalmente, il suo ritorno nostalgico alle origini etnee

A mia madre

Tri voti apristi l’occhi

pri mi guardari.

Tri voti suspirasti

stirasti i vrazza

scusannuti

e senza parrari

ti sfilasti a vita

com’un cappottu

ca pisa quannu veni

a bedda stagiuni.

 

Mi permetto di non tradurre, mi permetto di affermare che la bellezza resta nel suono della sua lingua madre, come madre è colei che tanto aveva amato e dalla quale forse mai fu fino in fondo compresa. Come madre fu quella Sicilia lasciata troppo presto per andare a cercare altrove quegli studi che il sud Italia degli anni ’50 ancora non poteva offrirle.

Quanto è lontano il linguaggio della Goliarda poeta dalla prosa ricca, ricercata, che spesso si concede all’aulicità quasi neoclassica di un romanzo come L’arte della gioia…

È una poesia asciutta, densa, senza nulla cedere all’eccesso. È una lingua essenziale, che mira all’obiettivo e lo centra al primo scoccare di freccia. È quello stesso nitore espressivo che mi ha subito catturata e che mi ha fatto innamorare della Sapienza poetessa.

Sempre dal dolore trae linfa un’altra lirica del volume

È compiuto. È concluso. È terminato.

È consumato l’incendio. S’è fermato.

S’è chiuso il cerchio pietrificato.

Il tempo s’è fermato. È consumato

il delitto. S’è bruciato

il ricordo. L’ansia è cessata.

Una coltre di lava ha mormorato

ogni cranio ogni orbita svuotata.

Ogni bocca nel grido ha sigillato.

 

S’è chiuso il cerchio. Niente osa varcare

il silenzio di lava. Le formiche

girano intorno al rogo spento impazzite.

 

Il ritorno ai ricordi, l’eco del silenzio di lava risuona dentro la sua mente, mentre la mano scrive di formiche impazzite, forse le stesse che vede e sente Goliarda dopo i tanti elettroshock subiti per aver tentato ben due volte il suicidio. 

Allitterazioni, anafore ripetute, rime che svelano la grande conoscenza metrica e ritmica della Sapienza non fanno che accompagnare un lessico volutamente scarno, una poesia che si fa espressione chiara e diretta dei suoi stati d’animo, in controtendenza con le mode del momento, che prediligevano il ricorso all’ermetismo e dalle quali Goliarda Sapienza rifuggiva appositamente.

Ma tanto uterino era il rapporto con la madre, altrettanto emotivo, carnale e devoto era quello con il padre, Giuseppe Sapienza, avvocato catanese che non si tirava indietro innanzi a profferte di attenzioni da parte di altre donne, ma che fu quella parte leggera, fantastica, lirica che le mancava da parte materna. Era con lui che Goliarda bambina si recava ad assistere all’opera dei pupi, allora momento di condivisione in piazzette tra fumo di sigarette e coppole e chiacchericci; era con suo padre che Goliarda scopriva che la vita poteva essere arte e cinema, teatro e letteratura; fu sempre lui a incoraggiare i suoi studi d’arte drammatica. Ed è a lui che dedica le poesie che riporto di seguito, la prima delle quali, in italiano, è davvero un excursus di ciò che era per Goliarda bambina e poi donna il padre, in una mistura di figure metriche che dessero la misura all’emozione strabordante ad ogni verso (l’anadiplosi “in modo fino”, anastrofi ripetute, così come enjambement ricorrenti), incontenibile e lunga rassegna di minuzie dalla densa sicilianità, là dove nella seconda, in lingua madre, lo saluta quasi con risentimento, con il rimprovero di non averle mai alla fine concesso quelle affettuosità che il suo animo forse avrebbe desiderato. Ed è con esse che saluto con un arrivederci questa mia amata poetessa di lava e sangue, mare e carusi, vanedde e coppole mafiuse.

*****

M'insegnasti un amore senza dio

un amore difficile terreno

 per le donne e i carusi del quartiere

nero grumo di lava sotto il sole.

M'insegnasti un amore senza dio

un amore carnale pieno d'odio

per i vecchi corrosi dalla sete

contro il muro buttati tra gli sputi.

M'insegnasti a discernere l'afrore

della fame rappreso nei capelli

dell'amica di banco a non temere

il nitore sprezzante del suo basso.

M'insegnasti quel ridere che sboccia

come fiore di sciara dal selciato

e cresce nel calore dei cortili

s'avviluppa alla notte su pei balconi

dove i cigni sgomenti delle tende

si rinserrano lividi a celare

mani lisce dall'unghie levigate.

Mi portasti per strade per vanedde

a fatica tagliate nella lava

fra l'insonne delirio di carretti

e banchi e palchi issati per l'agonia

di anguille laminate boccheggianti

fra i garofani accesi dalle grida

di coltelli in scommesse balenanti

nel verde insanguinato dei meloni.

Per anni quel tuo ridere di lama

sussultante fra i denti mi protesse

dal terrore appostato nei cantoni

con scarpini attillati di mafiosi

in attesa impaziente sbriciolata

di cicche morse dal tacco di vernice.

Per anni quel tuo passo senza rimorsi

mi protesse dai vicoli più scuri

dove ammiccano donne traballanti

nel lucore verdino dei lumini

fra i seni rosei posati sul vassoio

e le tenaglie infuocate che la santa

sogguarda col suo petto mutilato.

Per anni nelle notti smerigliate

dalla pomice rossa di scirocco

leggevamo vicini sul balcone

in attesa dell'eco di frescura

che in un grido si strappa dalla calura.

Dalle mani dell'uomo nelle mie mani

travasavi le ceusa "succo di bosco"

stillanti miele nero sul piattino

di pampini intrecciato "in modo fino".

In modo fino il tuo viso mi rideva

nelle palme scottate da quel gelo

Nel gelo acuminato di libeccio

fra i portici come oboe suonati

dal fiato salso del mare mi guidavi

nell'antro trasudante di passione.

La tua fronte fendendo l'aria appannata

dall'ansia dei picciotti m'indicava

fra la folla dei turchi e i paladini

la bellissima Angelica fremente

di bagliori di latta e nel frastuono

di ferrame vociante quel tuo riso

luceva attorcigliato sul clamore

alla spada d'Orlando sguainata

in difesa del giusto e del meschino.


*****

A mio padre

Picchì mi chiami

accussì

chi voi di mia.

A to carni è fridda

ora.

Prima nun mi vulisti

vasari.

 

1)  La serata è visibile al link https://www.youtube.com/live/xYv0LyWoyjg?si=GDHzCFTDZ4nqwYT1

2) https://www.lavitafelice.it/scheda-libro/goliarda-sapienza/ancestrale-9788877994875-124038.html




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