Melania Valenti - Ancestrale, Goliarda ed io.
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Melania Valenti |
Si è appena conclusa la 5a edizione de Le azzurre braccia della Luna”, reading poetico organizzato dalla comunità Versipelle. Introduco questo mio pezzo quindi così, con il piacere di condividere una attività, cui sono stata generosamente invitata a partecipare dalla Amica di penna e di cuore Emanuela Sica, con la paziente ospitalità di Federico Preziosi e la altrettanto paziente e assai competente conduzione della serata da parte di Elena Deserventi. Ha sempre la mia stima chi si spende per diffondere Poesia. Ho il cuore sempre aperto nei confronti di chi opera per le cose belle. E per me quella serata in Poesia, insieme a tante voci di rilievo ad ascoltare versi, è stata una “cosa Bella”.
Perché questa premessa? Perché proprio l’invito a partecipare all’evento di cui sopra1 è stata per me l’occasione di parlare di una poetessa cui sono legata in modo viscerale e che ho scoperto in tale veste da pochi anni. Questo perché il mio primo contatto con la sua scrittura fu con il celebre romanzo postumo L’Arte della gioia, che, a dispetto della sua grande fama, non ha incontrato del tutto i miei gusti. Sto ovviamente parlando di Goliarda Sapienza (1924-1996).


Personalità tormentata, la Sapienza cerca nella scrittura una forma espressiva che forse in altro modo non riesce a raggiungere. E nel testo poetico trova, a mio modesto modo di vedere, l’espressione più consona alla sua anima, al suo dolore, alla sua inquieta instabilità.
La poesia, si sa, non può mentire, e Goliarda vi trova rifugio all’indomani della precoce perdita della madre, la socialista e rivoluzionaria Maria Giudice, che tanta parte aveva avuto nei movimenti per l’emancipazione femminile e che lei amava profondamente, benché se ne sentisse altrettanto profondamente distante. E per lei scrive una poesia che è dichiarazione di amore senza età, di un amore che parla di rapporto ancestrale, appunto, di un amore che giunge a farle aprire per la madre, sofferente di una grave forma di diabete, un conto dal pasticcere sotto casa una volta saputo che le sarebbero comunque rimasti pochi mesi di vita. E da figlia di padre che era diabetico, so quanto debba esserle costata quella scelta di amore senza ritorno…
A mia Madre
Quando tornerò
sarà notte fonda
Quando tornerò
saranno mute le cose
Nessuno m’aspetterà
in quel letto di terra
Nessuno m’accoglierà
in quel silenzio di terra
Nessuno mi consolerà
per tutte le parti già morte
che porto in me
con rassegnata impotenza
Nessuno mi consolerà
per quegli attimi perduti
per quei suoni scordati
che da tempo
viaggiano al mio fianco e fanno denso
il respiro, melmosa la lingua
Quando verrò
solo una fessura
basterà a contenermi e nessuna mano
spianerà la terra
sotto le guance gelide e nessuna
mano si opporrà alla fretta
della vanga al suo ritmo indifferente
per quella fine estranea, ripugnante
Potessi in quella notte
vuota posare la mia fronte
sul tuo seno grande di sempre
Potessi rivestirmi
del tuo braccio e tenendo
nelle mani il tuo polso affilato
da pensieri acuminati
da terrori taglienti
potessi in quella notte
risentire
il mio corpo lungo il tuo possente
materno
spossato da parti tremendi
schiantato da lunghi congiungimenti
Ma troppo tarda
la mia notte e tu
non puoi aspettare oltre
E nessuno spianerà la terra
sotto il mio fianco
nessuno si opporrà alla fretta
che prende gli uomini
davanti a una bara.
E sempre alla madre, dedica la Sapienza la lirica in apertura di Siciliane, libro con cui aveva siglato, anche formalmente, il suo ritorno nostalgico alle origini etnee
A mia madre
Tri voti apristi l’occhi
pri mi guardari.
Tri voti suspirasti
stirasti i vrazza
scusannuti
e senza parrari
ti sfilasti a vita
com’un cappottu
ca pisa quannu veni
a bedda stagiuni.
Mi permetto di non tradurre, mi permetto di affermare che la bellezza resta nel suono della sua lingua madre, come madre è colei che tanto aveva amato e dalla quale forse mai fu fino in fondo compresa. Come madre fu quella Sicilia lasciata troppo presto per andare a cercare altrove quegli studi che il sud Italia degli anni ’50 ancora non poteva offrirle.
Quanto è lontano il linguaggio della Goliarda poeta dalla prosa ricca, ricercata, che spesso si concede all’aulicità quasi neoclassica di un romanzo come L’arte della gioia…
È una poesia asciutta, densa, senza nulla cedere all’eccesso. È una lingua essenziale, che mira all’obiettivo e lo centra al primo scoccare di freccia. È quello stesso nitore espressivo che mi ha subito catturata e che mi ha fatto innamorare della Sapienza poetessa.
Sempre dal dolore trae linfa un’altra lirica del volume
È compiuto. È concluso. È terminato.
È consumato l’incendio. S’è fermato.
S’è chiuso il cerchio pietrificato.
Il tempo s’è fermato. È consumato
il delitto. S’è bruciato
il ricordo. L’ansia è cessata.
Una coltre di lava ha mormorato
ogni cranio ogni orbita svuotata.
Ogni bocca nel grido ha sigillato.
S’è chiuso il cerchio. Niente osa varcare
il silenzio di lava. Le formiche
girano intorno al rogo spento impazzite.
Il ritorno ai ricordi, l’eco del silenzio di lava risuona dentro la sua mente, mentre la mano scrive di formiche impazzite, forse le stesse che vede e sente Goliarda dopo i tanti elettroshock subiti per aver tentato ben due volte il suicidio.
Allitterazioni, anafore ripetute, rime che svelano la grande conoscenza metrica e ritmica della Sapienza non fanno che accompagnare un lessico volutamente scarno, una poesia che si fa espressione chiara e diretta dei suoi stati d’animo, in controtendenza con le mode del momento, che prediligevano il ricorso all’ermetismo e dalle quali Goliarda Sapienza rifuggiva appositamente.
Ma tanto uterino era il rapporto con la madre, altrettanto emotivo, carnale e devoto era quello con il padre, Giuseppe Sapienza, avvocato catanese che non si tirava indietro innanzi a profferte di attenzioni da parte di altre donne, ma che fu quella parte leggera, fantastica, lirica che le mancava da parte materna. Era con lui che Goliarda bambina si recava ad assistere all’opera dei pupi, allora momento di condivisione in piazzette tra fumo di sigarette e coppole e chiacchericci; era con suo padre che Goliarda scopriva che la vita poteva essere arte e cinema, teatro e letteratura; fu sempre lui a incoraggiare i suoi studi d’arte drammatica. Ed è a lui che dedica le poesie che riporto di seguito, la prima delle quali, in italiano, è davvero un excursus di ciò che era per Goliarda bambina e poi donna il padre, in una mistura di figure metriche che dessero la misura all’emozione strabordante ad ogni verso (l’anadiplosi “in modo fino”, anastrofi ripetute, così come enjambement ricorrenti), incontenibile e lunga rassegna di minuzie dalla densa sicilianità, là dove nella seconda, in lingua madre, lo saluta quasi con risentimento, con il rimprovero di non averle mai alla fine concesso quelle affettuosità che il suo animo forse avrebbe desiderato. Ed è con esse che saluto con un arrivederci questa mia amata poetessa di lava e sangue, mare e carusi, vanedde e coppole mafiuse.
*****
M'insegnasti un amore senza dio
un amore difficile terreno
per le donne e i carusi del quartiere
nero grumo di lava sotto il sole.
M'insegnasti un amore senza dio
un amore carnale pieno d'odio
per i vecchi corrosi dalla sete
contro il muro buttati tra gli sputi.
M'insegnasti a discernere l'afrore
della fame rappreso nei capelli
dell'amica di banco a non temere
il nitore sprezzante del suo basso.
M'insegnasti quel ridere che sboccia
come fiore di sciara dal selciato
e cresce nel calore dei cortili
s'avviluppa alla notte su pei balconi
dove i cigni sgomenti delle tende
si rinserrano lividi a celare
mani lisce dall'unghie levigate.
Mi portasti per strade per vanedde
a fatica tagliate nella lava
fra l'insonne delirio di carretti
e banchi e palchi issati per l'agonia
di anguille laminate boccheggianti
fra i garofani accesi dalle grida
di coltelli in scommesse balenanti
nel verde insanguinato dei meloni.
Per anni quel tuo ridere di lama
sussultante fra i denti mi protesse
dal terrore appostato nei cantoni
con scarpini attillati di mafiosi
in attesa impaziente sbriciolata
di cicche morse dal tacco di vernice.
Per anni quel tuo passo senza rimorsi
mi protesse dai vicoli più scuri
dove ammiccano donne traballanti
nel lucore verdino dei lumini
fra i seni rosei posati sul vassoio
e le tenaglie infuocate che la santa
sogguarda col suo petto mutilato.
Per anni nelle notti smerigliate
dalla pomice rossa di scirocco
leggevamo vicini sul balcone
in attesa dell'eco di frescura
che in un grido si strappa dalla calura.
Dalle mani dell'uomo nelle mie mani
travasavi le ceusa "succo di bosco"
stillanti miele nero sul piattino
di pampini intrecciato "in modo fino".
In modo fino il tuo viso mi rideva
nelle palme scottate da quel gelo
Nel gelo acuminato di libeccio
fra i portici come oboe suonati
dal fiato salso del mare mi guidavi
nell'antro trasudante di passione.
La tua fronte fendendo l'aria appannata
dall'ansia dei picciotti m'indicava
fra la folla dei turchi e i paladini
la bellissima Angelica fremente
di bagliori di latta e nel frastuono
di ferrame vociante quel tuo riso
luceva attorcigliato sul clamore
alla spada d'Orlando sguainata
in difesa del giusto e del meschino.
*****
A mio padre
Picchì mi chiami
accussì
chi voi di mia.
A to carni è fridda
ora.
Prima nun mi vulisti
vasari.
1) La serata è visibile al link https://www.youtube.com/live/xYv0LyWoyjg?si=GDHzCFTDZ4nqwYT1
2) https://www.lavitafelice.it/scheda-libro/goliarda-sapienza/ancestrale-9788877994875-124038.html
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