Mauro Barbetti - Il campo delle scritture non-liriche (Parte 2a)

Mauro Barbetti

 

IL CAMPO DELLE SCRITTURE NON-LIRICHE (Parte 2a)


Dopo il veloce excursus storico generale, cominciamo a gettare uno sguardo sulla produzione non-lirica di casa nostra. L'esigenza di un avvicinamento tra poesia e prosa, senza considerare le prose poetiche di Campana o di Rebora (dove si assiste più a un andare della prosa verso la poesia) è stata avvertita in modo specifico da molti poeti a partire soprattutto dagli anni Settanta del Novecento e ne possono essere testimonianza due libri fondamentali come Satura di Montale e Transumanar e organizzar di Pasolini entrambi usciti nel 1971. Di qui in poi molti hanno orientato la propria poesia con un andare verso la prosa; i motivi possono essere molteplici, certamente tra questi vi è il tentativo di una maggiore comunicazione e razionalizzazione a fronte della tendenza all'astrazione e all'elitarismo proprio della poesia ermetica dominante nel primo Novecento. Si potrebbero citare anche L'ospite ingrato primo e secondo di Fortini, ibridazione tra lirica e saggistica in forma prosimetrica, Viaggio d'inverno di Bertolucci i cui versi di tono colloquiale tendono ad allargarsi orizzontalmente nella pagina, alcune sezioni del Diario d'Algeria di Sereni, dove compaiono testi poetici misti a prose e poi, naturalmente, un po' tutti i neoavanguardisti, sia Pagliarani che Balestrini, sia Porta che Sanguineti, così come lo spostamento del registro linguistico verso la prosa è evidente anche in autori di poco successivi, come Giampiero Neri o Valerio Magrelli, tanto per citarne solo alcuni. Vorrei però scivolare ancora avanti e soffermarmi su un testo, che io considero paradigmatico.

*****

Nel 2017 esce nella collana Donzelli Poesia “La pura superficie” di Guido Mazzoni.

In realtà La pura superficie è un lavoro composito, che va oltre la definizione di poesia, è un prosimetro, cioè composto da scritture in versi e altre in prosa, volendo definire le prime come regolate da un flusso di righe interrotte da un a capo e le seconde stese linearmente fino alla punteggiatura di fine frase: la breve introduzione iniziale che segue, dà già al lettore una definizione di poetica, un'appartenenza, un marcare il campo entro cui si muoverà la scrittura all'interno del libro.


La pura superficie è fatta di testi numerati e divisi in sezioni. Alcuni sono in versi, altri in prosa; alcuni sono scritti in prima persona, altri in terza (o in seconda); a volte la persona di cui si parla coincide con la persona che ha messo la firma sul libro, altre volte no; [...] Queste differenze, fondamentali su un certo piano di realtà, sono, su un altro piano, del tutto irrilevanti.

Mazzoni pone dunque subito l'accento sul fatto che la materia di cui tratta l'opera non ha a che fare, se non marginalmente, con l'espressione di un io individuale. In realtà il dato biografico nel libro esiste, è persino rilevante in alcuni testi, chi parla è senz'altro un uomo occidentale, un intellettuale, alcuni suoi tratti sono ben riconducibili all'uomo Mazzoni, ma tutta la visione è come spostata fuori da sé, come analizzata da una prospettiva esterna, come se un altro io guardasse se stesso attraverso una lente oggettivante, mai indulgente, nel feroce tentativo di de-costruire una realtà in cui vari io coabitano (quello del poeta è solo uno tra i tanti, puro paradigma della modernità, o forse, più propriamente, della post-modernità). 

Il primo testo arriva al lettore in modo diretto, lapidario, come un pugno nello stomaco.


1. Uscire

Esce di casa per una ragione, la dimentica,

sale su un autobus, incontra le persone, le scherma col linguaggio,

dice “studente fuorisede”, “tatuata”, “filippino”

per non vedere il fuorisede, la donna tatuata, il filippino,

poi viene travolto dalle frasi assurde, le mani colorate

come animali onirici,

come uccelli tropicali, l’anarchia degli altri.


Da qualche anno le cose mi vengono addosso senza protezioni.

In sogno vedo denti rotti, punti di sutura,

topi tagliati in due, fra l’orecchio e la mascella, che discutono fra loro.

Spesso, quando parlate, io non vi ascolto,

mi interessano di più le pause tra le parole,

ci leggo un disagio che oltrepassa la psicologia, qualcosa di primario.

La tatuata scende prima di diventare umana, il vetro

moltiplica i dettagli, per un attimo

il filippino significa qualcosa,

poi prova le suonerie, il suo rumore

mi ottunde internamente, vorrei colpirlo.

Ero uscito per comprare una di quelle lampadine a led

di nuova generazione, di quelle che non si bruciano,

un paio di forbici, la frutta, un cocomero.

Ho scritto un testo che non tende a nulla. Vuole solo esserci, come tutti.

Ho scritto un testo che rimane in superficie.


Da subito si nota questo descrivere un'esperienza in terza persona e poi rifletterla come propria, in prima persona, nella seconda strofa: in entrambe la partecipazione emotiva è comunque distante, non è il focus del testo. Il focus sta semmai nel tentativo di proporre brani di vita autentici, che pur facenti parte dell'esperienza del Mazzoni-uomo, vengono portati in superficie e analizzati minuziosamente, crudamente, per restituirci un'immagine-mondo edulcorata da qualsiasi sentimentalismo o ordine valoriale. Mazzoni mette in scena la crisi dell'uomo e della società occidentale di inizio Duemila, dico mette in scena perchè non esercita l'assertività propria di un io soggettivo, ma fa cogliere aspetti di reale in presa diretta, quasi attraverso un processo filmico che non utilizza quasi nessuno degli artifici retorici o letterari propri della poesia. 

Analizzando il libro nella sua globalità, le trenta poesie di cui si compone sono disposte in gruppi di sei a formare cinque sezioni intervallate da un brano di prosa. Tra la terza e quarta sezione troviamo ad esempio questa prosa. 


Sedici soldati siriani

Lo psicoanalista gli consiglia di non guardare immagini al risveglio, di svegliarsi lentamente per «recuperare il significato della propria presenza», ma l’Isis, nel sonno, ha decapitato sedici soldati siriani e li ha messi su Liveleak, e lui ora vuole vederli.

Un gruppo di miliziani trascina i prigionieri per il collo della tuta. La definizione è altissima, le luci sono scelte bene, gli uomini dell’Isis vogliono sembrare statue, i siriani vogliono sembrare umili; rasati e truccati guardano fissi nella camera mentre il regista inquadra la scena dal basso verso l’alto usando il rallentato per creare qualcosa che stia fra il monumento e il film d’azione. I prigionieri camminano piegati in due come ovipari, come paperi senza proporzione; un tizio vestito di nero spiega in inglese perché verranno uccisi. Guardano verso di noi da una regione interna remota con una specie di intensità teatrale, come se questa non fosse la loro vita. Poi il tizio smette di parlare, i miliziani tirano fuori i coltelli, i siriani vengono spinti a terra. Sono docili; vengono sgozzati con lo stesso movimento con cui si affetta la carne nel piatto, muovendo la lama avanti e indietro, infantilmente; e anche se il sangue esce a spruzzo l’inquadratura resta perfetta, l’ultimo prigioniero dissanguato fa in tempo a guardarci di nuovo prima di perdere coscienza. Poi c’è uno stacco, c’è un effetto di montaggio dopo il quale le teste dei siriani ricompaiono scisse dal corpo, poggiate sulle schiene, e parte la sigla di chiusura. È un video orribile. È un video molto bello. Significa molte cose – per esempio che lo avete visto, che avete desiderato vederlo, che uccidere un nemico è un gesto umano e vi appartiene, e chi sa compierlo è forte, più forte di chi lo guarda mentre fa colazione in una società esteriormente pacifica, occultamente crudele. Mette via il computer, finisce di mangiare.

La sera esce con un gruppo di persone che per abitudine chiama amici. Hanno più di quarant’anni, si conoscono superficialmente, come succede fra gli adulti; in mezzo a loro c’è un ventenne maschio ignoto. Gli ultraquarantenni sono qualcosa, hanno qualcosa e lo difendono (una coppia, un figlio, dei luoghi comuni, la possibilità stessa di parlarne seriamente); il maschio giovane non è niente e dunque è libero, parla senza sfumature, come se cercasse di incidere o tagliare, come se nulla avesse peso. Lui lo guarda fisso, lo odia intimamente. Vorrebbe essere così. Lo è stato venticinque anni fa; poi è diventato più umano, meno lucido, più indulgente, e oggi lascia che il maschio giovane si prenda il centro della scena parlando con disprezzo di un lavoro precario che lo mette vicino alle persone medie, quelle che pensano di essere qualcosa, assurdamente.

Poi la cena finisce e si apre quel momento in cui, dopo i saluti, guardando le case, le proprie scarpe o i cassonetti del vetro, si capisce che gli altri non ci riguardano o non ci interessano. Accompagna a casa una donna con cui ha un rapporto senza impegno. Lei si sta attaccando più di quanto hanno stabilito, lui si protegge fingendo di non capire. Scopano. Comincia un dialogo dove le parole significano altro, un discorso obliquo e pieno di rancore che ogni coppia conosce e che non vi descrivo; va avanti per ore mentre la mente si riempie di residui: le tute dei prigionieri, il maschio giovane, il gesto di tagliare, una pletora di dettagli, alla periferia della coscienza, che non sapeva di avere trattenuto. Pensa a un’auto, a un episodio della propria adolescenza, a una parola che non c’entra niente come «esantematico» o «organolettico»; pensa alle piante e agli animali piccoli, agli insetti per esempio, a come ogni loro corpo esista in uno sciame e scompaia senza enfasi, senza credere di essere qualcosa. È orribile. È orribile ma non importa.


A ben vedere non sembra esserci distinzione tra poesia del primo testo e prosa del secondo, se non nella finzione della mise en scene sulla pagina (che non sia proprio questo che Mazzoni vuole dimostrarci?). Il clima è lo stesso, il metodo di osservazione appare lo stesso: un mix di sguardo oggettivo e analisi psicologica dei meccanismi più profondi, che anche quando è rivolto alla propria esistenza (nonostante la terza persona il testo potrebbe benissimo rimandare a un bagaglio esperienziale del Mazzoni-uomo) sembra avere i tratti di un resoconto oggettivo. Il quadro che ne esce sembra improntato all'autenticità, questa ci appare davvero la vita (e la morte) con cui ci confrontiamo ogni giorno, in tutta la sua crudezza, in tutto il suo orrore. La scrittura di Mazzoni non teme di fare i conti con questo orrore di fronte alla morte, né con l'horror vacui dell'esistenza.

Veniamo all'ultima poesia della raccolta: anche qui c'è un intreccio di vita e morte, anche qui c'è un occhio che tende a farsi esterno, nonostante la materia trattata, nonostante una sicura vicinanza affettiva: forse è proprio questo distanziamento dello sguardo che fa sì che l'elegia (perchè di questo si tratta), non scada nella retorica, nel piagnisteo o nel “già sentito”, che il nucleo di dolore trattenuto ci venga restituito in modo diretto e che l'hic et nunc finale ci si mostri, plausibilmente, come l'unica risorsa da mettere in campo, l'unico modo possibile per continuare ad andare avanti.


Terzo ciclo

E mentre guardi le riviste,

le vite dei calciatori in mezzo alle altre larve

nella sala della chemioterapia,

sappiamo entrambi che non vivrai,

sappiamo che non servono parole, perciò

guardiamo la stanza o parliamo di Antognoni

o di questo muro fuori filo, che è fatto male e ti disturba,

hai lavorato nei cantieri, è stata questa la tua vita.

Ma oggi non importa, siamo felici di esserci ancora,

di stare insieme qui, i maschi non piangono, le parole non contano  

Questo testo può ben dimostrare come una scrittura anti-lirica, pur privilegiando quasi sempre la ragione o l'argomentazione intellettuale, sia in grado comunque di toccare la sfera dei sentimenti (o forse, più correttamente, quella dei dati esistenziali), sia pure non esponendoli, non accentuandoli, non sguazzandoci dentro. 

In definitiva in tutto libro si avverte che il dato ontologico c'è, è rilevante, Mazzoni ci descrive senza infingimenti un uomo contemporaneo, un uomo che si trova a sperimentare la sua mancanza di senso, che si trova a muoversi in un orizzonte esperienziale vuoto, sfuggente, dove tutto pare restare sempre in superficie e dove i momenti epifanici che la realtà offre, sono in realtà epifanie raggelanti, che conducono dal vuoto del quotidiano direttamente all'abisso del vivere e dove anche il linguaggio che usiamo mostra tutta la sua inadeguatezza e insufficienza: “non servono parole”, si parla senza comunicare veramente, magari di Antognoni o di “cazzate” (che in altra poesia è il termine specifico utilizzato da Mazzoni per definire le chiacchiere superficiali, quotidiane, che intercorrono tra persone, che le blindano e le mascherano). E' proprio questo linguaggio che gli interessa praticare, non un vocabolario mistificato e mistificante, poetico, artificioso, ma quello, più rivelatore, della prosa utilizzata tutti i giorni per definire e definirci.

Il percorso di Guido Mazzoni in questo scorcio di secolo non è un'esperienza solitaria, in molti hanno sentito l'esigenza di unire scrittura in versi e scrittura in prosa, ne do qui brevemente conto con altri due autori, scusandomi in anticipo per l'estrema sintesi e la selezione fatta, certo sarebbe stato possibile inserirne molti altri, ma ogni elenco, purtroppo, risulta di per sé cosa parziale e riduttiva e spesso è il gusto e la (scarsa nel mio caso) conoscenza personale che governa tali scelte.


Da Ritorno a Planaval di Stefano Dal Bianco (2001)

POESIA CHE HA BISOGNO DI UN GESTO

Ho posato una ciotola di sassi

tra me e voi, sul pavimento.

L’ho fatto perché vorrei parlarne

ma non mi fido delle mie parole.

Mi piacerebbe che riuscissimo a parlare

esattamente della stessa cosa

senza che nessuno debba far finta di aver capito

e senza che nessuno si senta incompreso:

io, nella fattispecie.


Vorrei parlare di questi sassi, ma non della loro forma o del loro colore, e nemmeno della loro sostanza o del loro peso.

Vorrei parlare di questi sassi, ma prima vorrei essere sicuro di non essere frainteso.

Per esempio, nemmeno del mio gesto mi posso fidare: forse è sembrato un gesto teatrale, magari fatto male, senza stile, ma pur sempre con dentro qualcosa di simbolico. Invece io non voglio questo. Io vorrei che tutta l’attenzione si concentrasse proprio sui sassi che stanno lì e al tempo stesso che questa fosse più simile a una poesia che a un monologo.

E un’altra cosa non vorrei: che questa dei sassi fosse considerata una ‘trovata’; perché sarebbe vero solo in parte: io sono veramente preoccupato che noi veramente non parliamo la stessa lingua, ed è così che ho scritto una poesia dimostrativa. Ma io sono preoccupato soprattutto in questo momento, ed è un momento, un attimo, in cui non voglio dimostrare niente, voglio solo andarmene contento, nella sicurezza di aver parlato con qualcuno, e che qualcosa sia successo. Non mi interessa se ciò che sto facendo sia vecchio o nuovo, bello o brutto, ma mi dispiacerebbe se fosse inteso come falso, e sto rischiando. Di solito scrivo delle cose che mi sono abituato a chiamare poesie, ma se questa cosa di questo momento non dovesse funzionare, non dovesse essere compresa, tutto ciò che ho scritto e che scriverò non avrebbe scopo.

Allora, vorrei che ci si concentrasse su quei sassi. Non perché siano importanti di per sé, e non perché siano un simbolo di qualcosa, ma proprio perché sono una cosa come un’altra: sassi.

Hanno però delle qualità: sono visibili e toccabili, sono tanti e sono separati.

Noi dobbiamo stare con i sassi.

Sono una cosa del mondo.

E dobbiamo cercare di capirli.

È per questo che ho scritto una poesia che ha bisogno di un gesto e di un pensiero.

Adesso io starei qualche secondo in silenzio, pensando ai sassi.

Avevamo parlato di un'urgenza di autenticità e di non artificiosità linguistica sottesa all'allontanamento dalla forma lirica, di necessità di un distanziamento dell'io e direi che in questo testo (pur nel permanere di una soggettività che si esprime e di una scrittura comunque consapevole dei propri strumenti e dunque accurata) tali urgenze siano molto avvertite e avvertibili, anzi diventino il tema centrale di tutto il brano.


Da Materiali di una identità di Mario Benedetti (2010)

CAPITOLO SECONDO

I

Lo sai che ci siamo incontrati. Non fare finta. Non fare finte. E allora? Sei un corpo che si dà, si dice così. Lo dicono. Senza amore. Una vecchia storia? No. Corpo cinico, crudele. Ma vulcano in sommovimento interno, con amore. E’ tutto.


Chi parla?


Sono in diversi a ballare nella gabbia. Uno ricorda sé. Un altro, sé. In tre o quattro. Ho guardato in foto la Tangenziale Est che ti porta al mare. In costume, foto che mi volevi inviare e non lo farai. E’ tutto.


Frasi nella vita.

II

‘Sto’ con una donna distante nello spazio ma non nel tempo che mi ama. Io no. In questa mia vita esposta, in estensione, diffranta. E’ tutto.

Chi parla?

Nessuno è geloso. Ho il cellulare che suona spesso, se voglio. C’è un locale, a portata, di buona birra, Metal e ragazze. Ora deserto. E’ tutto.

Frasi nella vita.

Voglio concludere con poche parole, facendo soltanto notare che qui, nonostante la prima persona utilizzata, il testo si basa su ripetizioni quasi liturgiche di alcuni elementi (Chi parla?… E' tutto... Frasi nella vita), elementi che mettono costantemente in dubbio che l'io che si esprime incarni proprio quello dell'autore e  queste non siano che frasi captate da un esterno, che il loro valore sia semplicemente parziale e non definisca che una ristretta e diffranta porzione d'esistenza. La nostra, quella di tutti noi, altrettanto diffranta e dispersa.

Alla prossima.


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Attivo in ambito letterario in gioventù, Mauro Barbetti per vent’anni ha creduto di averla fatta franca, poi nel 2008 il vizietto della scrittura lo ha ripreso. 

Ha all’attivo le raccolte in versi “Primizie ed altro” - La scuola di Pitagora ed. (2011), “Inventorio per liberandi sensi” - Limina Mentis ed. (2013), “Versi laici” - Arcipelago Itaca ed. (2017) e “Retro Schermo” – Tempra ed. (2020).

Nel 2020 ha vinto il Premio Pagliarani – sez. inediti con la raccolta “Frammenti da zone soggette a videosorveglianza”, pubblicata da Zona nel 2022. Nello stesso anno è uscito anche “Dismettersi” (La valle del tempo ed.)

Alcuni suoi testi compaiono su Poetarum Silva, Poesia del nostro tempo, la Recherche.it, Poesia ultracontemporanea, Argonline e Versante Ripido.

Ha realizzato traduzioni di poeti in lingua inglese quali John Berryman e Keith Douglas.

Dovesse avere qualcosa in testa (non capita di frequente), proverà a scriverlo “irregolarmente” su questo magazine.

E' anche redattore della casa ed. Arcipelago Itaca.

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