La scintilla di te che mi credi vera - INEDITI di Lara Pagani- a cura di David La Mantia
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Ho scritto altrove che c'è una ricerca quasi ossimorica di bellezza e salvezza nei versi di Lara Pagani. Qui ad esempio "la media luce di novembre che consola e dispera", perché "cosa/ vogliamo dirci di nuovo che non sia/già stato bisbigliato". Tutto sembra già accaduto in questo poetare ed è come se la poeta intervenisse a rendercene notizia, una volta per sempre, a prendere atto di qualcosa che non poteva andare diversamente. Perché la sua poesia, nella quiete di una mesta dolcezza musicale, è una strada talora disperata, di apparizioni spettrali, di lasciti a cui si deve adempiere perché "sappiamo tutto sin dall'inizio", come se le regole del gioco fossero profondamente infisse nel nostro cuore, decise già prima della nascita dal nostro dna. I testi indicano sin dagli incipit un mondo di sconfitta e di maledizione (Di che posso lamentarmi", "Faremo la stessa fine degli altri"), perché è inevitabile che chi ci lascia, spirito od uomo certo, "lasci un mondo sgangherato", perché tutti dovranno abbandonarci, un giorno. Elegia, questa la parola chiave di Lara Pagani. Che sia un abbandono, un addio, un cedere, un andarsene. Eppure lo splendido verso di stampo fortiniano "resti in ciò che scrivo" apre sempre la speranza. Perché la morte, come una carta dei Tarocchi, non è solo la fine di tutto: è anche il segno del mutare, della trasformazione. Perché è metamorfosi, tanto che "al di là del tuo letto, appena lascerai/ la mia mano, dalla terra si aprirà/ un varco buono. Non è vero, rassegnati,/ che divisi si debba per forza morire". Da lì rinascerà il contrario della fine, la speranza. Ecco, nella scissione resta una necessità di umanità, di un mondo di valore, anche combattuto, anche fragile e pronto a disperdersi, che si erga a barriera contro l'odio ed il dolore ("Saresti apparso, avresti detto/ le due parole che solo a te bastano/ a far tremare le gambe di un tavolo" ed ancora "A distinguerci sarà/ stato il principio: la scintilla/ di te che mi credi vera.", quest'ultima di stampo montaliano, quasi una riedizione di Clizia).
Tecnicamente, la Pagani accetta la tradizione, con tanto di figure retoriche (l'epanadiplosi di "sappiamo", in poliptoto con "sapevo", poliptoto che torna anche con "dice" e "detto", che insiste su nessi fonici, sottolineati anche da "posso"), concedendosi solo qualche balzo linguistico di ascendenza cavalcantiana (bisbigliato, sbigottito) e ancora montaliana (varco, scintilla). C'è, infine, anche il classico "novembre", topos della poesia italiana, con Carducci, Pascoli, Raboni, un mese che lascia a metà, che ti trasforma in un dividuo, scisso, incapace di andare oltre il destino inesorabile di angoscia e sollievo.
***
Di che posso lamentarmi, sapevo
fin dal principio — lo sappiamo sempre
prima, dice Daniela, lo sappiamo
con precisione — che sarebbe andata
così. Saresti apparso, avresti detto
le due parole che solo a te bastano
a far tremare le gambe di un tavolo
e ceduto come fanno gli spiriti.
Mi lasci un mondo sgangherato: resti
in ciò che scrivo, nella media luce
di novembre che consola e dispera.
***
Ora risali dal cuscino, chiedi l’acqua
dolce delle mie lacrime. Che cosa
vogliamo dirci di nuovo che non sia
già stato bisbigliato tra l’uno e l’altro
bacio — che cosa pretendi da me,
ancora? No che non posso inventarti
una storia diversa da quella
che conosci, che ti lascia sbigottito:
al di là del tuo letto, appena lascerai
la mia mano, dalla terra si aprirà
un varco buono. Non è vero, rassegnati,
che divisi si debba per forza morire.
***
Faremo la stessa fine
degli altri. A distinguerci sarà
stato il principio: la scintilla
di te che mi credi vera.
Straordinaria, e straordinario tu nel commentarla
RispondiEliminagrazie davvero
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