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Nota critica a cura di David La Mantia |
Quante Roma conosciamo, quante Roma ci hanno consegnato gli artisti che hanno contribuito alla sua fama? La Roma disincantata e malignetta di Giuseppe Gioacchino Belli. Quella didascalica e furbina di Trilussa. Quella pessimista e nichilista di un Gastone o di un Nerone, impersonata da un geniale Petrolini. La Roma tutto cuore e anima della Magnani, quella tutto pane e pasta di Aldo Fabrizi e della Sora Lella. La Roma della sposa bambina del Reuccio Claudio Villa, quella disperatamente romantica e nostalgica di un Lando Fiorini, quella spaesata ed esangue di una Gabriella Ferri. Quella burrosa e opulenta di un Fellini, quella lieve e fuori posto di Marcello Mastroianni, quella di Alberto Sordi, umanissima nel suo essere coacervo di contraddizioni e difetti. Quella di Nino Manfredi, legata spesso ad un mancato riscatto sociale.
In passato quella impalpabile e severa di Amelia Rosselli, quella della Morante, quella di Penna morbida e perduta, quella carica di ironia della Cavalli, la Roma senza Papa in mano ai vigili urbani dello sfortunato Guido Morselli.
Oggi quella di Gabriella Sica, di Gino Scartaghiande, della Anedda e della Bre, quella luminosa e madre di Elisabetta Destasio Vettori. Oggi quella potente e epica delle colonne sonore di Morricone, quella minimale di Emanuele Trevi. Oggi quella lievemente musicale di Nicola Bultrini, quella "religiosa" di Ilaria Giovinazzo, quella meravigliosamente nostalgica di Concetta Petrollo, quella vitalistica di Davide Cortese e Patrizia Baglione. Quella memore di un antico valore, ma ormai sepolta sotto la spazzatura di un Sorrentino. E quanti e quante dimentico in questa lista. Mille Roma, una per ogni sguardo, una per ogni cercare.
Marco Masciovecchio sta profondamente infisso in quella irripetibile tradizione, proprio lì nel cuore del disincanto di una Roma frastagliata e violenta, intensamente petroliniana nel suo non aspirare più ad un vero cambiamento, una Roma feroce, a cui il romanesco offre una spalla decisiva. È la lingua del popolo dell'Urbe, che chiama a raccolta i suoi simboli, gli "infami", le donne "rotte", gli amori fatti di bruciori, sangue e fuoco. Eppure, in un contesto così apparentemente basso, non manca una gestione attenta delle parti retoriche.
Le continue allitterazioni, le epanadiplosi cantilenanti quasi come un refrain, i poliptoti insistite, le anadiplosi coraggiose ("gajardo"), la ricerca di chiuse ad invettiva con aprosdoketon, la parolaccia liberatoria e catartica, conferiscono nella materia pulsante un equilibrio non casuale. Il poeta conosce benissimo la tradizione in cui si inserisce, eppure talora la rinnova e ravviva con temi della contemporaneità, come la violenza sulle donne e l'ipertimesia.
1. "amore"
te conosceveno tutti ar pronto soccorso
'na vorta er labbro rotto 'n'artra er braccio storto
l'urtima tre costole incrinate e quarche graffio l'occhi li nasconnevi alle domanne
er groppo te saliva in gola e te mettevi a piagne
la vergogna te spappolava er core
nun l'hai mai confessato nemmanco ar prete manco ar riflesso der viso tumefatto
ne lo specchio
mo tremi come 'na foja nell'angolo più buio de 'sta casa
la canna de la pistola sulla tempia pursa all’impazzata
dar naso da la bocca te cola er sangue
e cò la voce rotta, ripeti a tormentone
- nun lo dovevi fa', so' tutta rotta-
se so' affacciati tutti da li barconi
quanno sei sortita insieme a du 'nfermieri
colla scorta de li carabbigneri
tu fiera come 'na lupa hai arzati l'occhi ar cielo l'hai mitrajati tutti
ce fu silenzio pesante come er piombo
lo stesso 'nfilato drento ar core
de quell'infame che te chiamava amore.
2. "ipertimesia"
e mica è corpa mia
se 'nvece der cervello
c'ho 'n' hard disk esaggerato
credime è 'na malattia
se chiama ipertimesia
praticamente nun te scordi 'n cazzo
te resta tutto 'mpresso
tu me dirai - gajardo!-
-gajardo 'n par de palle!-risponno io
campece te senza scordatte gnente
er bello er brutto ogni capello torto
e ogni vorta senti er dolore
che te sconquassa er petto
come se tutto riaccadesso adesso
e nun c'è cura da sta malattia
a chi tocca nun se 'ngrugna
se la pija 'nder culo e così sia!
3. "l'amore è"
l'amore è 'na scintilla
che se tramuta 'nfiamma
t'abbrucia er sangue
e tu nun ce poi fa gnente
abbruci insieme a lei
come fosse 'na danza
nun te scordà
ce vole cura e legna
perché 'sto foco nun se spenga.

Marco Masciovecchio, impiegato, vive a Ciampino e lavora a Roma, dove è nato.
Fotoamatore, ha partecipato a concorsi nazionali e internazionali e a mostre collettive in Italia.
Nel 2023 è uscito il suo primo libro di poesia, Poco più di niente, ed. Ensemble. https://www.edizioniensemble.it/prodotto/poco-piu-di-niente/
I suoi versi in italiano sono presenti in varie antologie poetiche.
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